Parole piccole, parole pesanti

Ho sempre amato molto le parole, senza badare troppo all’istinto perfezionista, tipico di una mente traduttrice. Anzi, quella, credo proprio di non averla mai avuta.

Per carità, nei testi formali cerco di essere sempre attenta a non commettere errori, di qualsiasi tipo, complice la mia vecchia, scorbutica relatrice che ha lasciato un segno indelebile nel mio cuore. Tuttavia, quando qualche piccolo errore di battitura riesce a defilarsi per poi adagiarsi, quatto quatto, sulla pagina di un messaggio di testo, o anche qui sul blog, poco importa. Non me ne faccio un gran problema, può succedere. Sono una persona normale, non sono -ahimè, una giornalista.

A loro, invece, mi riesce perdonare veramente poco, se non nulla, ultimamente.

Due grandi, opposte menti fiorentine parlavano del giornalismo come di una vera e propria missione -come ci ricorda quell’anima forte e risoluta di Tiziano Terzani ; se non addirittura come di un obbligo morale di ricercare, di riconoscere la verità, proprio come faceva quella testarda, cocciuta di Oriana Fallaci.

Non è certo necessario avere una vista sopraffina per accorgersi di quanti e quali errori abitino in quasi tutti i quotidiani online, credo anzi siano così tanto evidenti da scomparire nel baccano quotidiano con cui riempiamo le nostre giornate.

E se quello, l’errore, la svista, la disgrafia passeggera o diagnosticata, mi fa riflettere molto su dove stiamo dirigendo le nostre vite, quelle online e quel poco di quel che rimane della nostra vita carnale, c’è solo un’altra cosa, ancora, che mi lascia in uno stato d’animo indefinibile.

Coloro che usano la parola fragile, quello sì, mi lascia molto perplessa. A prescindere dalla testata giornalistica, personaggio pubblico o meno, carica importante o meno, persona cara o meno. Quasi tutti tendono a usare questa parola per definire chi, poi?

Una persona che si è lasciata andare? Forse qualcuno che ha preso una brutta strada? Una persona che sembra non azzeccarne mai una?

La verità è che la parola fragile sta bene solo sulla bocca degli ipocriti, proprio come un cappotto di pregiata manifattura copre alla perfezione la pochezza di chi cerca di farsi grosso utilizzando parole apotropaiche.

Fragile è una parola pensata per proteggere coloro che la utilizzano dalla contagiosità di questa stessa condanna: la fragilità.

Un uomo fragile sembra esserci nato così, con la stessa naturalezza con cui non si metterebbe mai in dubbio il proprio gruppo sanguigno. Si è fragili, e basta. E quando lo si dice, fragile, di qualcuno, ci si sente immediatamente diversi, sani, salvi.

La verità è che nessun uomo nasce fragile, nessun uomo lo diventa, nessuno sa di esserlo. Lo siamo tutti, a turno, in queste nostre vite piene di affanno e gioie inattese.

Allora, forse, l’unica cosa che mi sento di dire è quella di augurare un attimo di umiltà in più a tutti coloro che tacciano qualcuno di fragilità. Chiamare qualcuno fragile è dimenticarsi di tutte le volte in cui abbiamo ammirato questa persona, di tutte quelle volte in cui non siamo stati presenti, o capaci, di riconoscerne la sua forza, la sua estrema dolcezza, la sua bontà d’animo.

La vita non è una gara a chi perde per primo: è una via parallela a tutte le altre che ci porta in posti lontani, a volte indicibilmente belli, altre volte orrendi.

I quaderni americani, prime bozze

Non proprio.

I quaderni americani non sono necessariamente quello che pensate voi. Tanto per intenderci, non sto parlando di questi: https://wwhttps://www.amazon.it/COMPOSITION-NOTEBOOK-Marble-college-inches/dp/B09F14T8DT/ref=asc_df_B09F14T8DT/?tag=googshopit-21&linkCode=df0&hvadid=610875638091&hvpos=&hvnetw=g&hvrand=2108300182974441485&hvpone=&hvptwo=&hvqmt=&hvdev=c&hvdvcmdl=&hvlocint=&hvlocphy=1008337&hvtargid=pla-1430514756233&psc=1

I quaderni americani sono un progetto che nasce verso la fine del 2022, momento in cui ho iniziato a buttare giù le prime righe. Ho vissuto negli Stati Uniti per due anni, dall’estate del 2018 fino a maggio 2020. Sono stati anni carichi di esperienze, anni che mi hanno segnata molto, più nel bene che nel male, direi.

Sono stati anni irripetibili e, come qualsiasi esperienza irripetibile, credo valga la pena scriverla, raccontarla, tornarci sopra per vedere se le percezioni e i ricordi siano sempre gli stessi, o se invece l’ombra dell’oblio abbia già contaminato le pagine della nostra memoria.

Vi sembrerà strano o forse prematuro, parlare di oblio alla tenera età di trent’anni, ma come ricorda il noto criminologo e psichiatra Massimo Picozzi, la nostra memoria non è una fotocopia: il modo in cui rielaboriamo un ricordo è soggetto a rimaneggiamenti del quale neppure noi siamo coscienti.

Da qui, dalla mia volontà di non lasciar sfilacciare il filo degli eventi troppo a lungo nel tempo, nascono dunque i Quaderni Americani, progetto di ampio respiro a lenta, lentissima gestazione.

Eccovi un piccolo assaggio:

Prendiamo quindi coraggio e facciamo pace con noi stessi: dell’America non sappiamo proprio nulla.

Immaginiamo, crediamo di sapere molte cose, anche aspetti tipicamente culturali. La verità è che noi non ne sappiamo e non ne possiamo sapere nulla di nulla, sebbene questo credo sia un ragionamento applicabile a qualsiasi tutte le culture e popoli a noi lontani dal nostro.

Ma se questo fosse vero, se davvero non sapessimo nulla dell’America, come spiegarsi allora quel senso di ancestrale conoscenza, quel senso di vicinanza scritta quasi nei geni e nella memoria?

Merito del processo immigratorio iniziato anni addietro? Sicuramente, ma c’è qualcosa di più.

Io sono cresciuta con i telefilm americani, dapprima il candido e puro Dawson’s Creek per passare a The Oc, protagonisti quasi tutti ricchi e problematici, eppure così dannatamente interessanti.

Grazie a ET, l’extraterrestre, ho imparato ad andare in bici a zonzo per i vialetti americani, così armoniosi e fitti di vegetazione.

Degli Stati Uniti, sappiamo inoltre che mangiano piuttosto male, che le macchine sono grosse, che i figli finito il liceo vanno nei college e che le macchine si posteggiano nei vialetti della propria casa, i cosiddetti driveway, oppure nei carport, quei capannoni all’aperto adiacenti la casa, adorabile e indipendente.

Conosciamo la loro passione per il football americano (soccer), sappiamo del loro Thanksgiving, il giorno del ringraziamento, festività quasi più importante di Natale.

E ancora, sappiamo che ogni casa ha la propria bandiera americana esposta fuori (tutte le case, siamo sicuri?) e che i grattacieli di New York sono infiniti.

Risaputa è la dedizione americana al lavoro, così come rinomata è il rispetto, la venerazione sconsiderata al Dio verde (ammirazione o dipendenza congenita?), il dio Dollaro che tutto può, tutto dà e tutto toglie.

Infine, come lasciarsi sfuggire di mente il loro gravissimo problema delle armi da fuoco, argomento che ciclicamente ritorna all’ennesima, dolorosa, sparatoria scolastica.

Sappiamo del loro modo impacciato di relazionarsi, ma la verità è che noi non siamo molto diversi dagli americani che, bontà loro, credono che ogni bambina italiana nasca con una borsa Gucci in mano, non si sa se in comodato d’uso o se di proprietà.

La verità è proprio questa: per gli americani, noi italiani nasciamo tutti dalla mano di stilisti di calibro internazionale: ci rechiamo leggiadri e spensierati a lavoro, a bordo delle nostre bellissime vespe e, particolare inspiegabile, ci nutriamo della miglior cucina al mondo senza mai mettere su un chilo di troppo.

Non dimentichiamoci poi che noi italiani siamo un po’ casinisti, parliamo un po’ troppo a voce alta e con qualche gesto di troppo. Ma del resto, che ci importa! Possiamo sempre goderci un caffè accavallando le gambe in un qualche rinomato bar del centro, mostrandoci a vicenda i mocassini griffati e parlottare ridendo senza un solo cruccio al mondo.

Così si conoscono le persone da un capo all’altro del mondo: per sentito dire, per risaputo, dunque per vero.

Il senso sociale del noi

Non siamo poi così tanto diversi dalle orche, o forse sì, lo siamo.

Secondo la neuroscienziata Lori Marino, esperta in comportamento animale, (https://whalesanctuaryproject.org/people/lori-marino/ ) il proprio senso di sé, del singolo animale, sarebbe distribuito fra i membri del proprio pod ( il gruppo di orche appartenenti alla stessa famiglia a discendenza matriarcale).

A ben vedere, il fatto gli esemplari maschi di orca, una volta conclusosi l’accoppiamento con una femmina di un altro pod, ritornino dalla loro famiglia di origine, la dice lunga sul senso di appartenenza e forte attaccamento che contraddistingue questo animale così misterioso e affascinante.

Per le orche, la famiglia è tutto. La loro cultura, il loro linguaggio, così come le tecniche di caccia, esistono solo grazie al cammino condiviso che portano avanti una vita intera. Un’orca non si separa mai dal suo gruppo e se questo avviene, come spesso succede a coloro che soffrono della sindrome più bella e fugace della vita di ognuno, la spavalderia giovanile, ecco allora entrare in gioco quello strumento potentissimo chiamato geolocalizzazione -ve ne parlo un’altra volta che oggi sono di fretta!

Succede però, o forse sarebbe meglio parlare al passato, che anche le orche si perdano e rimangano indietro, senza potersi mai più ricongiungere alla propria famiglia.

Il caso di Luna, infatti, è stato il più famoso a finire sulle pagine di cronaca americana e canadese, attorno ai primi anni duemila.

Un esemplare di orca maschio, identificato dai biologi come L-98, adottato dagli abitanti del Nootka Sound, una remota valle fluviale invasa dalle fredde acque del Pacifico, facente parte dell’isola di Vancouver (British Columbia), questo animale si perse e rimase sempre nelle vicinanze di quel fiordo, stringendo un rapporto quasi simbiotico con le persone del posto.

Vi ho incuriosito? Peggio per voi, mannaggia al tempo che stringe!
Nel frattempo, vi lascio un paio di cose interessanti: https://en.wikipedia.org/wiki/Luna_(orca)

Sopra, il link alla pagina Wikipedia che racconta la storia senza precedenti di quest’orca. Inoltre, vorrei incuriosirvi ancora con un piccolo particolare.

Mi sono imbattuta nella storia di questo animale, come sempre succede, per caso, due anni fa, guardando qui e là per la rete. Ho scoperto un documentario in inglese con la voce narrante di Ryan Reynolds. L’ho guardato alla nausea, quel documentario. Sapevo ogni fotogramma a memoria. Si intitola The Whale, il documentario -da non confondere con il film uscito nelle sale l’anno scorso, di tutt’altro argomento, quello con Brendan Fraser, per intenderci.

Bene, dopo qualche mese il documentario è sparito da Youtube, nowhere to be found.

Qualcuno sa dirmi come mai Youtube rimuova video dalla rete, soprattutto senza prima avvisarmi?

E ancora più importante, se qualcuno conoscesse il modo per reperire questo documentario, possibilmente con la narrazione in inglese -in spagnolo già l’ho trovato, ma non mi va particolarmente a genio, gliene sarei molto grata.

Alla prossima, bella gente!

Disclaimer: questo articolo può contenere tracce di errori di battitura. Chiedo venia in anticipo.

A volte, forse sempre, basta proprio poco.

(A continuazione dell’articolo precedente….)

Carissimi chiunque voi siate, cari voi,

Quante volte vi siete ritrovati a voler fare una cosa, e pensando di non aver mai tempo avete infine, per l’ennesima volta, rimandato?

Che domande faccio! Innumerevoli, immagino. Be’, dal canto mio la risposta non può che essere una sola: costantemente. Ogni giorno mi sveglio e anche se non inizio subito a correre come la gazzella del proverbio africano (il responso numerico della mia pressione mi consente semmai di fluttuare, correre al mattino è per me, senza ombra di dubbio, una spericolata fantasia), ho comunque tante cose a cui pensare, grandi e piccine, che l’idea del blog, lo ammetto, ultimamente mi sembra addirittura un vezzo senza senso. Diciamocela tutta: mi sembra di perdere tempo.

Ebbene, oggi sono andata a pranzo con un’amica e mentre ero in macchina, con curioso, raro, largo anticipo, mi sono ritrovata a suonare il clacson a un mio amico che attraversava le strisce proprio in quel momento, lì davanti a me. Si tratta di quel tipo di amico a cui si vuole tanto bene, ma che per strane, imperscrutabili (a entrambe) situazioni della vita, si incontra o vede, una volta ogni tanto. Facciamo anche una volta all’anno.

Sicché, ogni volta che lo vedo gli urlo dietro che dobbiamo vederci, e chissà se questa volta mi ricorderò di scrivergli: adesso certo no perché sto scrivendo il blog, e poi dopo no, perché dopo aver finito sarà troppo tardi, e poi domattina infine sarò, farò, dimenticherò. Capite quanto è facile far passare di mente le cose?

Tutto questo per dire, per dirvi, che il suo fugace accenno al mio blog “Ehi, ma ho visto che hai un blog!”, mi ha fatto riflettere su quanto sia importante prendersi cura di esso, non perché ritenga giusto saturare con frequenza l’etere dei miei strampalati aggettivi e delle mie passeggiate mentali, quanto perché scrivere regala, in un certo qual modo, tempo.

Scrivere richiede tempo, neanche tanto in realtà, ma altrettanto tempo restituisce indietro.

E quindi, grazie, caro amico mio, per avermi fatto riflettere su quanto poco tempo stessi dedicando al blog, e dunque a una parte di me stessa.

Infine, volevo riprendere brevemente il discorso che avevo iniziato l’altra volta, giusto qualche mese fa.

Ricordate? In breve, ho voluto esprimere una mia impressione, che credo possa essere non del tutto sbagliata, su quanto il mondo di oggi stia diventando non tanto invivibile, brutto o povero di valori, perché tutte queste cose possono avere un significato diverso per ognuno di noi, soprattutto se estrapolate dal contesto o adattate a una cultura diversa da quella in cui siamo cresciuti. Quello che mi spaventa, davvero, è quanto l’esternazione della rabbia, in particolar modo quella verbale, sia diventata la farina con cui impastiamo quello che ci capita sotto mano.

Intendiamoci, c’è anche chi se ne guarda bene, c’è chi usa una farina a rabbia zero, ma c’è anche tanta gente che, forse senza nemmeno accorgersene, prende la rabbia come esempio di forza, come ingrediente di indiscusso rispetto e successo.

La cosa che trovo ancor più interessante, di tutta la faccenda dell’aggressività verbale, è che da un lato la usiamo, ne facciamo lo stesso uso che se ne fa dei tovaglioli per il gelato: esageratamente troppi per una sola persona, e dall’altra, comunque, penso che ognuno di noi si renda conto di vivere un tempo difficile (no, non parlo solo del Covid, perché di problemi ne avevamo già prima).

E questa piccola, sottile consapevolezza a cosa porta? All’esatto opposto, perché l’uomo non solo è essere sociale, è anche essere molto tonto, quasi schizofrenico. Una volta raggiunta l’ombra, pensiamo sia sufficiente quella per non patire più il sole che a lungo abbiamo avuto sulle spalle. Cosa facciamo quindi? Inondiamo la rete di messaggi sull’ormai famosa body positivity (concetto molto bello, ma forse utopico e inapplicabile in una società virtuale invasa da filtri, da fotografie che sembrano voler ritrarre un panorama di montagna ancora più bello di quello che già è, come se quello che vediamo non fosse abbastanza tirato a lucido).

Parliamo di inclusione, di volerci tutti più bene, di accettarci così come siamo, di vedere il bello nella diversità. E di nuovo, non sto dicendo che tutto questo sia solo utopico, ma forse, soltanto, che prima di fare un salto di qualità così importante, sarebbe meglio assicurarsi di avere ben salde le gambe nelle nostre piccole quotidiane azioni di non aggressività verbale verso l’altro.

Che tanto, e così mi riallaccio al proverbio africano, mica dobbiamo difenderci da un leone!

In caso vi trovaste invece a dovervi difendere da un leone….

Eh no, manco l’aggressività verbale sarebbe sufficiente a salvarvi la pellaccia. L’aggressività non paga, mai.

Gli effetti a lungo termine della gentilezza

Dove finisce la libertà d’espressione, subdolamente, emerge silenziosa e forte, la capacità di diffusione di un umore collettivo, una sorta di stato emotivo capace di penetrare tra le maglie del web, un odore spiacevole che si propaga nella società come petrolio nel mare.

Per farvi capire ciò di cui sto parlando, vi porto come esempio il recente sfogo del rapper Fedez, a distanza di qualche ora dal concerto del Primo Maggio. Ricordate?

Eccolo qui: https://www.youtube.com/watch?v=pz-D_tekDbo. Questo è il momento della telefonata tra i vertici Rai e il rapper.

I riflettori della mia piccola considerazione si accendono solo in merito al tono della telefonata. Non voglio mettere in discussione, schierarmi né prendere le difese di nessuna delle due parti. Il tono soltanto, mi interessa, la mimica facciale, tutte le sensazioni che vi suggerisce, nell’immediato, il tono, la scelta delle parole usate da Fedez.

Vi suonano familiari? É possibile che video di questo genere siano sempre più presenti nel nostro panorama quotidiano?

Io penso di sì. E badate, non intendo riferirmi esclusivamente al mondo italiano, piuttosto ad un atteggiamento emotivo molto diffuso in questi anni su social di ogni tipo.

Ora, se da una parte è vero che il mondo dei social non corrisponde alla vita reale (pensate solo all’uso che facciamo dei filtri, o a quelli che su Facebook chiamiamo amici), dall’altra è quantomeno innegabile che ciò che si respira sui social altro non è che una cartina tornasole per capire ciò che ci interessa, ciò che suscita in noi un qualcosa, uno stato in cui ci ritroviamo e forse, addirittura, una fonte d’ispirazione.

Il semplice motivo per cui stasera mi trovo a parlare di toni arrabbiati e atteggiamenti aggressivi penso sia riassumibile con un proverbio russo, scoperto di recente: una parola gentile è come un giorno di primavera. Ebbene, quelli che noi molto sterilmente chiamiamo “contenuti”, non credo siano solo idee, progetti e sfoghi. La comunicazione è diventata testimone e barometro della nostra civiltà.

—-Continua nel prossimo articolo….

Da dove eravamo e cosa stavamo facendo, da una finestra sul giorno.

Cari lettori di WordPress, amici carissimi e lettori lontani, cari voi:

Un piccolo post per cercare di spiegare la mia prolungata assenza, e per far sì che questo post sia l’inizio di un nuovo inizio.

Quando ho iniziato a scrivere questo blog avevo alcune cose in ballo, ma non troppe.

Al momento invece, forse a voler essere precise dovrei piuttosto dire da qualche mese, divido la mia giornata in diverse fettucce.

Alcune sono più tirate, altre più fitte, altre ancora quasi assenti al tatto. Capita, capita di avere momenti di attività bulimica e scomposta. Ma quando capita, ahimè, il primo tasto a venir danneggiato, per quanto mi riguarda, è proprio quello della lettura e della scrittura.

Leggendo poco, mi innervosisco ancora di più; forse perché passare poco tempo fra i libri è come passare poco tempo con se stessi, o forse perché ho bisogno di sperare e vedere un mondo migliore, sicuramente diverso da quello che ci vuole fatti di identità digitali e di profili della più becera, odiosa fittizia.

Cari miei, sto lavorando a molti progetti, il più grande è quello di diventare la persona lavorativa che mi sento. Insegnare è un verbo, ma saperlo coniugare è ben altra cosa. Saperlo spiegare è ben altra cosa, è un viaggio che non finisce mai. E forse, nell’attesa di un paziente giorno di primavera che già sta arrivando, meglio allora prepararsi un aromatico caffè con occhiali al seguito, una matita e fogli di carta. C’è tempo per tutto, e quando sembra che non ci sia, è giusto far di tutto perché, invece, il tempo ritorni.

A presto, cari miei.

Con affetto,

Guendalina

Il presidente è nudo.

Come un cantiere che lavora incessantemente prima della fine di agosto, così si muove questo mondo irrequieto con le sue notizie che rimbalzano da una nazione all’altra, dal moto concitato di labbra e sopracciglia di un giornalista ancora a lavoro, all’occhio assonnato di uno spettatore in pigiama dietro lo schermo della televisione.

Carissimi lettori, inutile girarci attorno o cercare di guardare altrove nella speranza che tutto si risolva. Perché questa volta la soluzione sembra esserci stata offerta dal problema stesso.

Ieri, 6 gennaio 2021, il bianco Campidoglio americano è stato aperto a forza dalla tracotanza di urla, di terroristi dall’animo puerile e incolto, di individui che berciavano sul nascere della sera, protetti nelle loro semplici menti dal vociare volgare di un presidente che è ormai diventato la rappresentazione più accurata dell’uomo becero, abbiente nel portafoglio e bisognoso della più essenziale forma di dignità umana.

Inutile girarci attorno, o prolungarsi nelle descrizioni di quanto già mandato in onda, sul web e su tutte le piattaforme d’informazione digitale. Ieri è stata scritta l’ennesima pagina di storia, quella che riguarda tutti e che tutti guardano con animo atterrito e sguardo incredulo. Eppure, in questo caso, il cratere stesso è diventato il punto d’innesto di cui l’America, e forse il mondo intero, aveva bisogno. Per dirla alla De André, dal letame nascono i fiori; anche se a dirla tutta, questa volta il fetore del letame è a dir poco ragguardevole.

Oltre alle finestre del Campidoglio, possiamo affermare con cauto ottimismo che, forse, si siano aperti anche gli occhi e le coscienze di tutti quelli che ancora, in un modo o nell’altro, credevano alle parole di un presidente che, davvero, non ne può più e che pare essere deciso a continuare nei suoi irragionevoli capricci degni di un adolescente isterico.

Di qualche giorno fa, la telefonata dal tono intimidatorio del presidente al Segretario di Stato della Georgia, la richiesta di trovare i voti di cui l’uomo avrebbe avuto bisogno per dimostrare di poter ribaltare la situazione. Diciamolo pure senza temere il politically correct: dopo esser stato esposto in tutta la sua furiosa e vergognosa incompetenza, l’uomo avrebbe fatto bene a godere dei suoi verdi risparmi, rintanandosi quatto quatto in qualche isola deserta, stando bene attento a non essere additato come immigrato; dall’altra parte si sa bene quanto poco ci voglia a passare da carnefice a vittima.

Giacché la telefonata e i vari tweet sul web non erano abbastanza, Trump ha deciso infine di superarsi e di mandare avanti la sua fiera folla di sostenitori agguerriti, per poi placarli con qualche timida parola di rassicurazione: andate a casa.

Inutile girarci attorno: la politica trumpiana ha sempre trasceso le aspettative di tutti.

L’unica grande, decisiva differenza sta proprio nella magnitudo di quanto è successo ieri: il lento e costante eccedere nelle incaute risposte e nelle reazioni parossistiche dell’amministrazione Trump ha trovato finalmente modo di autodenunciarsi dinanzi agli occhi di tutte le emittenti televisive. Chissà, forse i pacati e ordinati sostenitori di Trump avranno avuto un momento di nostalgia, avranno forse creduto che quell’edificio fosse una scuola da occupare?

Una cosa è certa: il presidente è nudo.

Lo spettacolo d’arte varia di . . .

Lavorare con la gente per me ha sempre rappresentato lo stesso sottile piacere che si prova nel leggere la quarta di copertina dei libri. Certo, a seconda del tipo di lavoro e a seconda del ruolo, il contatto può essere sporadico, prolungato o quotidiano. Sta di fatto che le persone non finiscono mai di stupirmi, e forse è proprio da questa energia rinnovabile di interesse e curiosità che nasce e si sviluppa la mia predisposizione a lavorare con esse.

Io, ad esempio, credo di avere una predisposizione a lavorare con le macchine stimabile, diciamo anche equiparabile, alla tenerezza di un guscio di lumaca. Le macchine mi hanno sempre inferto un certo senso di freddezza e incomunicabilità, ragion per cui non mi sono mai vista dietro allo schermo di un computer per più tempo di quello che reputo strettamente necessario. La gente, invece, la gente per me è un continuo spettacolo d’arte varia, e badate, non lo dico con ironia quanto con dolcezza.

Quante volte vi sarà capitato di imbattervi in individui litigiosi, o di assistere a una discussione tra una commessa e un cliente. È successo a tutti e, come sempre capita, ci passiamo sopra come nuvole che sorvolano imperterrite gli umori di noi goffi mortali.

E quante altre volte avrete pensato la gente è strana, come diceva Mia Martini. La gente scrolla, per dirla con il gergo attuale. È possibile allora che a essere strano sia il modo di relazionarci con una data persona che, in fin dei conti, avremmo potuto essere noi in un giorno qualsiasi della nostra esistenza? Tutte quelle volte che si crea tensione tra due persone, all’inizio della frustrazione, delle occhiatacce e durante il conflitto, quello che viene a mancare è il presupposto dei ruoli.

Io sono un paziente, sto male e mi aspetto di essere curato. Io sono un medico, io so e tu mi ascolti. La testa di ponte che consente alle due aspettative, quella di essere curato e quella di curare, di incontrarsi è un terreno relativamente sicuro quanto talvolta traballante: la comunicazione.

Per comunicazione non intendo solo il complesso di espressioni verbali e paraverbali, in quanto credo che la comunicazione più efficace sia quella che fa fede al ruolo che si ricopre in quel momento. Prendiamo il caso del medico e del paziente: un medico preparato, competente e sicuro del suo ruolo non potrà mai raggiungere un livello concreto ed efficace di comunicazione se dimentica il fatto che curare significa anche flettersi, volgere verso il basso il proprio sapere e il proprio io, chinarsi verso ciò che potrebbe anche non fargli piacere. Quanto più il medico riesce ad assistere il paziente, quanto più cosciente egli si fa delle aspettative del suo interlocutore. Ammesso e non concesso che il rispetto per l’altro sia presente in ognuno di noi, il pilastro portante su cui poggia la comunicazione, e quindi la serenità di rapporto tra di noi, è il rispetto del presupposto dei ruoli.

Per chiarire ulteriormente questo concetto, proviamo a pensare a un rapporto più semplice, uno a cui sicuramente ognuno di noi ha assistito di recente: il cassiere e il cliente.

Siamo alla cassa, la resa dei conti e ultimo di giro di boa per tutti quei clienti che, esausti e provati dalla moltitudine di scelte, prezzi e stimoli sensoriali giacciono stremati in coda, chi già brandendo la tessera fedeltà con sorvegliata fierezza, chi invece sospira e aleggia con la prestanza fisica di un ectoplasma, accasciato sul carrello e con la testa già nelle pantofole. Arriva il momento del conto, i numeri si fanno insospettabilmente alti. Ma io avevo diritto al trenta per cento di sconto, domanda che si fa già accusa tra il riverbero caotico delle barriere casse. E questo non è il trenta per cento di sconto, è troppo poco!

Ed ecco quindi gli occhi alzarsi al cielo, le pupille farsi vitree seppur reattive, ecco la cassa toracica prendere una lenta, vigorosa rincorsa per elargire l’ultima annoiata perla di venale saggezza: signora, il trenta per cento ce l’ha su una spesa massima di cento euro.

Bombardamenti aerei e invettive previste tra tre, due…

Perché, vi starete chiedendo, si assiste spesso a scenate simili? Perché il cliente si sente preso in giro (poco importa dire che era scritto sull’offerta, sappiamo bene tutti che facendo la spesa non si possa sempre avere la concentrazione di un neurochirurgo), e mentre il cliente esprime la sua rabbia con parole più o meno forti di disappunto, il cassiere ripassa per l’ennesima volta per Via Dallepallequestarompiballe.

La verità è che chi lavora con il pubblico, che ci piaccia o meno, dovrebbe sempre tenere a mente una parola: assistenza.

Assistenza al malato, assistenza al cliente, assistenza al turista. E assistere significa letteralmente stare accanto, e non con svogliata presenza ma con la consapevolezza che nel cammino di tutti i giorni a ognuno di noi piace essere assistito: il parrucchiere, l’assistente di volo, la dentista, la commessa, il maestro, il portinaio, l’avvocato, il muratore, la pediatra, sono tutte figure che in un modo o nell’altro soddisfano il nostro bisogno di essere assistiti e accompagnati in una procedura. Poco importa se si tratta di ristrutturare una casa o di pagare due euro di biscotti, assistere è occuparsi e preoccuparsi che la persona davanti a noi riesca nel suo bisogno. Allo stesso modo, il cassiere che non riesce a calmare il cliente indispettito è mancante nel suo ruolo di assistente, in quanto in quel momento il cliente sente di esser stato come raggirato. Avrebbe dovuto leggere meglio i cartelli, forse sì. Lo farà la prossima volta? Forse no. Ecco che allora sta a noi rendere chiare certe dinamiche prima che sia troppo tardi. In questo sta la nostra bravura come attori della comunicazione. In questo, sta la capacità ultima di chi lavora a contatto con il pubblico: ecco che mi arrivi cavalcando muri di rabbia e indignazione, eccoti.

Cosa è andato storto nella comunicazione di oggi? Sono qui per starti vicino, e chissà che non ci scappi anche una risata.

Scripta manent, e così sarà.

Come dicevano i nostri saggi amici latini: le parole volano, gli scritti rimangono.

Nell’epoca e nello strano tempo della scrittura assistita e della correzione automatica, possiamo affermare con cauta leggerezza che il nostro maggiore, cruciale problema sia quello di scindere la realtà dei fatti da quelli che invece sono stati manipolati come solo oggi sappiamo fare; con molta, sgraziata ignoranza, con imprudenza e con software specializzati nell’alterazione della storia, di quello che era e già non è.

Quante volte, soprattutto negli ultimi dieci anni abbiamo sentito parlare di fake news, le notizie false, le bufale? Nell’ormai lontanissimo 1999, precisamente il 31 dicembre di quell’anno, alcune testate giornalistiche parlavano del cosiddetto Millenium Bug, il baco del millennio, ovvero il difetto informatico che avrebbe dovuto mandare in tilt i sistemi informatici di tutto il mondo. Molto rumore per nulla, come direbbe qualcuno.

E ancora, i simpatici alligatori che abiterebbero con umida tracotanza l’intricato e complesso sistema fognario della Grande Mela; Teresa Fidalgo, la dama bianca che si aggirerebbe per le strade di Sintra, paesino collinare del panorama portoghese, le case infestate di Voltri, le creature leggendarie dell’Himalaya. Di qualsiasi leggenda metropolitana si tratti, una cosa è certa: le leggende piacciono e anche quando non interessano, suscitano sempre una certa reazione collegata al nostro bisogno di sognare, di andare oltre con la fantasia e concederci un viaggio nel territorio dell’inesplorato. In fondo, non siamo poi tanto diversi dal cucciolo di cane spaventato dal primo incontro con la neve o con il mare, sostanze e movimenti che non conosce e che lo fanno inorridire. Eppure, quasi come naturale reazione al senso dell’ignoto appena toccato con mano, il cane ritorna sui suoi passi, guarda di nuovo in faccia ciò che prima era solo una macchia oscura di territori inesplorati. Nello scontro, o nell’incontro con ciò che non conosciamo, viene soddisfatta in primis la nostra voglia di conoscere, l’umana innata curiosità verso ciò che è altro rispetto a noi e, soprattutto, il bisogno primario e centrale di sapere, e sapere significa essersi chiesti il perché delle cose.

Tuttavia, con l’avvento di Internet nelle nostre case e la diffusione capillare di tutti i verbi di ognuno, quello che mi preoccupa di più è vedere con quanta ingenua facilità riusciamo a farci manipolare nelle nostre piccole illusioni di conoscere, e misconoscere la propria storia, le origini della civiltà di ieri, il punto di partenza dei nostri primi passi.

Vi dirò anche che ogni volta che leggo della dipartita di colonne portanti del nostro passato come possono essere e sono i sopravvissuti ai campi di sterminio, ogni volta che uno di loro se ne va, si esaurisce con essi anche la nostra possibilità di ascoltarli, di dare tempo alle generazioni future di sapere, di ascoltare, di riflettere. Quando l’Olocausto sarà solo un fatto del passato, davvero, quanto poco ci vorrà per inserirlo nelle leggende metropolitane? L’unica nota positiva è che non sempre vale la pena crucciarsi troppo per il futuro quando già oggi, di tanto in tanto, si legge di professori negazionisti (qui l’articolo a riguardo: https://www.repubblica.it/2009/10/sezioni/cronaca/prof-olocausto/prof-olocausto/prof-olocausto.html), individui che l’evoluzione ha reso molto Homo e poco Sapiens.

La verità è che leggere è un importante processo che ci viene insegnato, chi da familiari e da sorelle maggiori, chi esclusivamente dalla scuola, ma la capacità di continuare a leggere e informarsi, nella società di oggi, è diventato un atto tutt’altro che scontato, non scevro da insidie e vizi di forma.

Scripta manent e verba volant, ma dove volant questi verba? Bastano pochi secondi per aprire una pagina Google qualsiasi, e basta altrettanto poco per credere, per illudersi di conoscere.

L’ho letto su Internet. E mente i verba volant dappertutto per insinuarsi nei vuoti e nelle lacune delle nostre conoscenze approssimative, è importante tenere a mente che la lettura di un libro, la testimonianza di un vecchio giornalista, la lettura critica di un testo ha un valore nutrizionale maggiore rispetto a un titolo di Milano Today intravisto scendendo dalla metro.

Per conoscere, per sapere, ci vuole tempo. Quel tempo che oggi sembra sfuggirci, lo stesso tempo che ci sembra sprecato quando studiamo ore e ore sui libri, quando ci chiediamo il perché delle cose.

Ragazzi di oggi, piccole teste di domani, questo ricordiamoci: anche gli scripta di Internet rimangono, anche le leggende metropolitane e le fake news volano parallele e ripiene di presunta fondatezza, al fianco dei libri, delle documentazioni passate che oramai troviamo, anch’esse, su cartelle online scaricabili sul nostro lucido lettore elettronico.

Questo voglio dirvi: gli scritti rimangono, e sono lì per essere letti. Le parole, quelle rigurgitate sul web, sono lì in virtù della sacrosanta libertà di parola, ma anche a danno di molti.

Il pensiero è un’attività da agonisti

Il cervello è l’organo più prezioso e raffinato del nostro corpo, sede non solo di molteplici funzioni vitali, ma anche cuore nevralgico di un moto perpetuo e incessante rappresentato da un’attività imperscrutabile, seppur fallace, che è il pensiero. Che ci crediate o no, il fatto ascritto al nostro imputato numero uno è quello di essere responsabile di grandi contrasti, discordie, incomprensioni e, non per ultimo, della questione tragicamente umana della guerra tra persone.

Le idee, e con esse le ideologie, credenze e convinzioni sono il prodotto ultimo e dimostrazione lampante di quanto dentro la botte piccola ci sia il vino buono. Giacché la sorgente prima del nostro pensiero risulta essere avidamente convoluta in soli 1500 grammi di materia viscida e gelatinosa, sorge dunque naturale chiedersi in che modo il cervello possa risultare colpevole e artefice di grandi e piccoli malintesi, fautore e dichiarato simpatizzante di incomprensioni e liti.

Prima di partire per il nostro viaggio di oggi, però, vorrei riportarvi alcune brevi, semplici parole dette dal filosofo statunitense Henry David Thoureau: le cose non cambiano, siamo noi che cambiamo.

Pensate alla forte polarizzazione riscontrabile in numerosi aspetti della nostra civiltà di oggi, così come in quella passata: pensate all’amico molesto che a stento trattiene la sua voglia di condire di fede e religione ogni discorso che ascolta, ogni persona nella quale si imbatte. Non ha forse la stessa pretesa del matematico Piergiorgio Odifreddi? Da sempre ateo e anticlericale, Odifreddi ha la stessa cieca determinazione e presunzione di qualsiasi cattolico, di qualsiasi vegano, di qualsiasi politico: dimostrare la sua idea, e quindi affermare il proprio essere.

L’unica religione è la matematica, il resto è superstizione, per dirla alla Odifreddi. Gesù è stato concepito nel seno della Vergine Maria, per dirla con le parole e i postulati di chi crede. Ebbene, nessuna delle due affermazioni, né quella di Odifreddi, né quella del credente è mai stata provata, men che meno smentita. Eppure, il resistere e il persistere della divergenza di sguardi che gettiamo verso questo universo di pietre, corpi e sensazioni, a ciò che vediamo e a ciò che vorremmo vedere ma non vediamo, è la causa ultima di ogni battaglia ideologica.

Giordano Bruno fu condannato per aver suggerito e sostenuto l’idea del multiverso e degli infiniti mondi, andando pericolosamente ed inevitabilmente a minare la centralità della Terra. E come qualcuno ricorderà, il noto filosofo di Nola non andò incontro a un bel final di vita; diciamo pure che è stato fresco, ma solo e strettamente in senso metaforico.

Incredibile pensare di poter essere gli unici, vero? E non gli unici sulla Terra, ma gli unici ad aver ragione. La verità, o forse meglio dire la realtà, è che di vero ci sono solo le molteplici interpretazioni che diamo e attribuiamo a ciò che è fuori di noi e da noi.

Le diverse ideologie, politiche, religiose, e il loro rispetto, sono alla base del quieto vivere sociale. A ben vedere, la diversità di panorama è ciò che, da sempre, caratterizza le nostre esistenze. Tuttavia, quando a essere diverso è il nostro panorama culturale, mentale ed emotivo, ecco che allora si creano basi e radici dalle quali pare impossibile prescindere; quanto più profondo il divario di idee, tanto più immedicabile la tensione e la ferita.

Per questo, mi preme aggiungere, è importante fare del pensiero uno sport a livello agonistico, il che non significa pensare sempre di più quanto pensare in modo critico, con cognizione di causa e con la giusta dose di tolleranza.

In questo mondo che cambia, il nostro unico scopo davvero utile è evolverci come persone e come teste, come portatori sani di sapere e di idee, non come promulgatori di lotte intestine e feroci.

Da qui, infine, vi ripropongo la frase di Thoureau, un giudizio che non posso che condividere: le cose non cambiano, siamo noi che cambiamo.