Ho sempre amato molto le parole, senza badare troppo all’istinto perfezionista, tipico di una mente traduttrice. Anzi, quella, credo proprio di non averla mai avuta.
Per carità, nei testi formali cerco di essere sempre attenta a non commettere errori, di qualsiasi tipo, complice la mia vecchia, scorbutica relatrice che ha lasciato un segno indelebile nel mio cuore. Tuttavia, quando qualche piccolo errore di battitura riesce a defilarsi per poi adagiarsi, quatto quatto, sulla pagina di un messaggio di testo, o anche qui sul blog, poco importa. Non me ne faccio un gran problema, può succedere. Sono una persona normale, non sono -ahimè, una giornalista.
A loro, invece, mi riesce perdonare veramente poco, se non nulla, ultimamente.
Due grandi, opposte menti fiorentine parlavano del giornalismo come di una vera e propria missione -come ci ricorda quell’anima forte e risoluta di Tiziano Terzani ; se non addirittura come di un obbligo morale di ricercare, di riconoscere la verità, proprio come faceva quella testarda, cocciuta di Oriana Fallaci.
Non è certo necessario avere una vista sopraffina per accorgersi di quanti e quali errori abitino in quasi tutti i quotidiani online, credo anzi siano così tanto evidenti da scomparire nel baccano quotidiano con cui riempiamo le nostre giornate.
E se quello, l’errore, la svista, la disgrafia passeggera o diagnosticata, mi fa riflettere molto su dove stiamo dirigendo le nostre vite, quelle online e quel poco di quel che rimane della nostra vita carnale, c’è solo un’altra cosa, ancora, che mi lascia in uno stato d’animo indefinibile.
Coloro che usano la parola fragile, quello sì, mi lascia molto perplessa. A prescindere dalla testata giornalistica, personaggio pubblico o meno, carica importante o meno, persona cara o meno. Quasi tutti tendono a usare questa parola per definire chi, poi?
Una persona che si è lasciata andare? Forse qualcuno che ha preso una brutta strada? Una persona che sembra non azzeccarne mai una?
La verità è che la parola fragile sta bene solo sulla bocca degli ipocriti, proprio come un cappotto di pregiata manifattura copre alla perfezione la pochezza di chi cerca di farsi grosso utilizzando parole apotropaiche.
Fragile è una parola pensata per proteggere coloro che la utilizzano dalla contagiosità di questa stessa condanna: la fragilità.
Un uomo fragile sembra esserci nato così, con la stessa naturalezza con cui non si metterebbe mai in dubbio il proprio gruppo sanguigno. Si è fragili, e basta. E quando lo si dice, fragile, di qualcuno, ci si sente immediatamente diversi, sani, salvi.
La verità è che nessun uomo nasce fragile, nessun uomo lo diventa, nessuno sa di esserlo. Lo siamo tutti, a turno, in queste nostre vite piene di affanno e gioie inattese.
Allora, forse, l’unica cosa che mi sento di dire è quella di augurare un attimo di umiltà in più a tutti coloro che tacciano qualcuno di fragilità. Chiamare qualcuno fragile è dimenticarsi di tutte le volte in cui abbiamo ammirato questa persona, di tutte quelle volte in cui non siamo stati presenti, o capaci, di riconoscerne la sua forza, la sua estrema dolcezza, la sua bontà d’animo.
La vita non è una gara a chi perde per primo: è una via parallela a tutte le altre che ci porta in posti lontani, a volte indicibilmente belli, altre volte orrendi.