La potenza evocativa delle parole

Raccontare e raccontarsi è un bisogno primordiale dell’uomo, una necessità intrinseca del nostro essere animali con facoltà di sviluppo del pensiero condivise e recepite al di fuori della nostra persona.

Dai primi intenti comunicativi delle grotte di Lascaux all’odierna, puerile messaggistica di Snapchat, la nostra fame di espressione è stata oggetto di molteplici polimorfismi, tuttora in atto, verso un desiderio sempre più forte di avere informazioni e aggiornamenti costanti, in un mondo che pare essersi ridotto a un clic. L’istantanea, ineccepibile logica binaria di un computer ha condotto, in modo silenzioso e quasi inevitabile, la nostra società verso un irrigidimento della nostra pazienza e verso una proporzionata idiosincrasia dei tempi di attesa. Non stupisce dunque la ridotta affluenza alle edicole, così come desta ormai un debole stupore la crescente presenza di errori di battitura, sintomo di mani veloci che poco o nulla possono contro il bipolarismo della società moderna.

 In questo caso, è necessario ammettere che l’annullamento delle distanze emotive e temporali fu ciò che, a suo tempo, mi portò a conoscenza del crollo del ponte Morandi; una tragedia in grado di planare oltreoceano fino ad arrivare alla mia piccola camera in affitto nella verdissima cittadina americana di Greensboro. Dall’altra, il dinamismo di un’informazione che al pari di un pettegolezzo di poco conto, viaggiando di bocca in bocca, sfiora ormai chiunque, anche l’individuo meno interessato, anche la mente più astratta dalla realtà. Questo flusso continuo di parole e contenuti, e la sua smodata e sregolata somministrazione al popolo dei connessi, porta con sé inevitabili ma sanabili, sfocature della comunicazione.

Tuttavia, in questa giungla di espressioni fallate e di comunicazioni imprecise e grossolane, credo sia un nostro dovere, come società e come singoli individui fatti di ossigeno e piccoli egoismi, guardare al ruolo del giornalista come possibile portatore di una verità, come colui che dipinge un paesaggio non per impressioni ma per la bellezza, o crudezza, che realmente vede davanti ai suoi occhi.

Nello specifico, tanto per rendervi partecipi dei miei tragitti mentali, sto pensando a Corrado Augias e Franca Leosini. Loro due, a mio giudizio, sono diventati dei personaggi, più che delle semplici persone con talento da vendere. La Leosini da una parte, tronfia ammiratrice di se stessa, in un’ intervista il cui link vi metto qui accanto (https://www.youtube.com/watch?v=JrToX6jAaB0), gode ampiamente, ed evidentemente nel solfeggiare le sue interviste per conferire al suo programma quel tocco di voyeuristico misto erudito.

Augias, invece, meriterebbe un capitolo a parte: tanto rispettoso e giusto con i suoi ospiti di allora a Telefono Giallo, lo ritroviamo infine, qualche anno fa, a strattonare cerebralmente dei ragazzini la cui pecca è quella di essere nati giovani e nell’era della pigrizia da Twitter.

Eppure, eppure eppure eppure, Augias e Leosini, pur con i loro difetti da comuni mortali, non tanto diversi dai nostri semplici, umani dislivelli socio-culturali, qualcosa di buono e profondamente, culturalmente forte ce l’hanno: loro due hanno lavorato con il cuore, facendo della loro professione un veicolo potente, chiaro ed evocativo.

Come un chirurgo che si serve del bisturi per iniziare il suo lavoro di indagine e cura, così il giornalista, lo scrittore, si serve della parola come proteina per legare e meglio rendere a noi ciò che più ci interessa: la verità.

Il giornalista mette al muro l’intervistato (pensiamo al recente, accigliato Augias che porta Salvini ad assumere una patetica somiglianza espressiva pari solo a quell’indifeso cerbiatto della Disney!), e sempre il giornalista è anche colui che, al di là dei suoi picchi di vanesia spocchia, tenta con tenacia, misurata persistenza ed eleganza di arrivare al cuore intimo delle cose.

Nelle sue storie maledette, forse anche in maniera piuttosto evidente, Franca Leosini ricostruisce non solo i fatti, ma anche la persona che dietro quei fatti ha sviluppato il suo cammino di dolore e morte. Per ricollegarci al tema del mondo che pensiamo di ritrovare a portata di clic, pensiamo all’intervista fatta ad Antonio Ciontoli, invero, spavaldo e incerto protagonista di uno dei più agghiaccianti fattacci di cronaca dei nostri tempi. La Leosini, pur con grande, incommensurabile fatica, sembra sempre sforzarsi di portare a galla la questione ultima di quella nottata. Non solo, con la sua intervista Franca Leosini ci fa raccontare direttamente dal suo ospite come davvero si siano svolte le cose quella serata. In questo senso, la sciatteria emotiva del Ciontoli viene medicata da una Leosini dalle parole giuste, da colpi d’arma di parola che costringono l’intervistato a non sviare più, a guardare in faccia il passato di cui ci si ammette, forse sì forse no, responsabili.

Eccoli, dunque, i nostri supereroi della parola, dell’uso colto e della raffinatezza verbale. Ed ecco noi, infine, abbonati seguaci delle peripezie stilistiche e degli incauti naufragi di cadute di stile giornalistico, di scrittori che usano la parola per fare soldi e non per diffondere sapere.

Con la farina si fa il pane, con le parole si fa la vita.

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