Lavorare con la gente per me ha sempre rappresentato lo stesso sottile piacere che si prova nel leggere la quarta di copertina dei libri. Certo, a seconda del tipo di lavoro e a seconda del ruolo, il contatto può essere sporadico, prolungato o quotidiano. Sta di fatto che le persone non finiscono mai di stupirmi, e forse è proprio da questa energia rinnovabile di interesse e curiosità che nasce e si sviluppa la mia predisposizione a lavorare con esse.
Io, ad esempio, credo di avere una predisposizione a lavorare con le macchine stimabile, diciamo anche equiparabile, alla tenerezza di un guscio di lumaca. Le macchine mi hanno sempre inferto un certo senso di freddezza e incomunicabilità, ragion per cui non mi sono mai vista dietro allo schermo di un computer per più tempo di quello che reputo strettamente necessario. La gente, invece, la gente per me è un continuo spettacolo d’arte varia, e badate, non lo dico con ironia quanto con dolcezza.
Quante volte vi sarà capitato di imbattervi in individui litigiosi, o di assistere a una discussione tra una commessa e un cliente. È successo a tutti e, come sempre capita, ci passiamo sopra come nuvole che sorvolano imperterrite gli umori di noi goffi mortali.
E quante altre volte avrete pensato la gente è strana, come diceva Mia Martini. La gente scrolla, per dirla con il gergo attuale. È possibile allora che a essere strano sia il modo di relazionarci con una data persona che, in fin dei conti, avremmo potuto essere noi in un giorno qualsiasi della nostra esistenza? Tutte quelle volte che si crea tensione tra due persone, all’inizio della frustrazione, delle occhiatacce e durante il conflitto, quello che viene a mancare è il presupposto dei ruoli.
Io sono un paziente, sto male e mi aspetto di essere curato. Io sono un medico, io so e tu mi ascolti. La testa di ponte che consente alle due aspettative, quella di essere curato e quella di curare, di incontrarsi è un terreno relativamente sicuro quanto talvolta traballante: la comunicazione.
Per comunicazione non intendo solo il complesso di espressioni verbali e paraverbali, in quanto credo che la comunicazione più efficace sia quella che fa fede al ruolo che si ricopre in quel momento. Prendiamo il caso del medico e del paziente: un medico preparato, competente e sicuro del suo ruolo non potrà mai raggiungere un livello concreto ed efficace di comunicazione se dimentica il fatto che curare significa anche flettersi, volgere verso il basso il proprio sapere e il proprio io, chinarsi verso ciò che potrebbe anche non fargli piacere. Quanto più il medico riesce ad assistere il paziente, quanto più cosciente egli si fa delle aspettative del suo interlocutore. Ammesso e non concesso che il rispetto per l’altro sia presente in ognuno di noi, il pilastro portante su cui poggia la comunicazione, e quindi la serenità di rapporto tra di noi, è il rispetto del presupposto dei ruoli.
Per chiarire ulteriormente questo concetto, proviamo a pensare a un rapporto più semplice, uno a cui sicuramente ognuno di noi ha assistito di recente: il cassiere e il cliente.
Siamo alla cassa, la resa dei conti e ultimo di giro di boa per tutti quei clienti che, esausti e provati dalla moltitudine di scelte, prezzi e stimoli sensoriali giacciono stremati in coda, chi già brandendo la tessera fedeltà con sorvegliata fierezza, chi invece sospira e aleggia con la prestanza fisica di un ectoplasma, accasciato sul carrello e con la testa già nelle pantofole. Arriva il momento del conto, i numeri si fanno insospettabilmente alti. Ma io avevo diritto al trenta per cento di sconto, domanda che si fa già accusa tra il riverbero caotico delle barriere casse. E questo non è il trenta per cento di sconto, è troppo poco!
Ed ecco quindi gli occhi alzarsi al cielo, le pupille farsi vitree seppur reattive, ecco la cassa toracica prendere una lenta, vigorosa rincorsa per elargire l’ultima annoiata perla di venale saggezza: signora, il trenta per cento ce l’ha su una spesa massima di cento euro.
Bombardamenti aerei e invettive previste tra tre, due…
Perché, vi starete chiedendo, si assiste spesso a scenate simili? Perché il cliente si sente preso in giro (poco importa dire che era scritto sull’offerta, sappiamo bene tutti che facendo la spesa non si possa sempre avere la concentrazione di un neurochirurgo), e mentre il cliente esprime la sua rabbia con parole più o meno forti di disappunto, il cassiere ripassa per l’ennesima volta per Via Dallepallequestarompiballe.
La verità è che chi lavora con il pubblico, che ci piaccia o meno, dovrebbe sempre tenere a mente una parola: assistenza.
Assistenza al malato, assistenza al cliente, assistenza al turista. E assistere significa letteralmente stare accanto, e non con svogliata presenza ma con la consapevolezza che nel cammino di tutti i giorni a ognuno di noi piace essere assistito: il parrucchiere, l’assistente di volo, la dentista, la commessa, il maestro, il portinaio, l’avvocato, il muratore, la pediatra, sono tutte figure che in un modo o nell’altro soddisfano il nostro bisogno di essere assistiti e accompagnati in una procedura. Poco importa se si tratta di ristrutturare una casa o di pagare due euro di biscotti, assistere è occuparsi e preoccuparsi che la persona davanti a noi riesca nel suo bisogno. Allo stesso modo, il cassiere che non riesce a calmare il cliente indispettito è mancante nel suo ruolo di assistente, in quanto in quel momento il cliente sente di esser stato come raggirato. Avrebbe dovuto leggere meglio i cartelli, forse sì. Lo farà la prossima volta? Forse no. Ecco che allora sta a noi rendere chiare certe dinamiche prima che sia troppo tardi. In questo sta la nostra bravura come attori della comunicazione. In questo, sta la capacità ultima di chi lavora a contatto con il pubblico: ecco che mi arrivi cavalcando muri di rabbia e indignazione, eccoti.
Cosa è andato storto nella comunicazione di oggi? Sono qui per starti vicino, e chissà che non ci scappi anche una risata.