(A continuazione dell’articolo precedente….)
Carissimi chiunque voi siate, cari voi,
Quante volte vi siete ritrovati a voler fare una cosa, e pensando di non aver mai tempo avete infine, per l’ennesima volta, rimandato?
Che domande faccio! Innumerevoli, immagino. Be’, dal canto mio la risposta non può che essere una sola: costantemente. Ogni giorno mi sveglio e anche se non inizio subito a correre come la gazzella del proverbio africano (il responso numerico della mia pressione mi consente semmai di fluttuare, correre al mattino è per me, senza ombra di dubbio, una spericolata fantasia), ho comunque tante cose a cui pensare, grandi e piccine, che l’idea del blog, lo ammetto, ultimamente mi sembra addirittura un vezzo senza senso. Diciamocela tutta: mi sembra di perdere tempo.
Ebbene, oggi sono andata a pranzo con un’amica e mentre ero in macchina, con curioso, raro, largo anticipo, mi sono ritrovata a suonare il clacson a un mio amico che attraversava le strisce proprio in quel momento, lì davanti a me. Si tratta di quel tipo di amico a cui si vuole tanto bene, ma che per strane, imperscrutabili (a entrambe) situazioni della vita, si incontra o vede, una volta ogni tanto. Facciamo anche una volta all’anno.
Sicché, ogni volta che lo vedo gli urlo dietro che dobbiamo vederci, e chissà se questa volta mi ricorderò di scrivergli: adesso certo no perché sto scrivendo il blog, e poi dopo no, perché dopo aver finito sarà troppo tardi, e poi domattina infine sarò, farò, dimenticherò. Capite quanto è facile far passare di mente le cose?
Tutto questo per dire, per dirvi, che il suo fugace accenno al mio blog “Ehi, ma ho visto che hai un blog!”, mi ha fatto riflettere su quanto sia importante prendersi cura di esso, non perché ritenga giusto saturare con frequenza l’etere dei miei strampalati aggettivi e delle mie passeggiate mentali, quanto perché scrivere regala, in un certo qual modo, tempo.
Scrivere richiede tempo, neanche tanto in realtà, ma altrettanto tempo restituisce indietro.
E quindi, grazie, caro amico mio, per avermi fatto riflettere su quanto poco tempo stessi dedicando al blog, e dunque a una parte di me stessa.
Infine, volevo riprendere brevemente il discorso che avevo iniziato l’altra volta, giusto qualche mese fa.
Ricordate? In breve, ho voluto esprimere una mia impressione, che credo possa essere non del tutto sbagliata, su quanto il mondo di oggi stia diventando non tanto invivibile, brutto o povero di valori, perché tutte queste cose possono avere un significato diverso per ognuno di noi, soprattutto se estrapolate dal contesto o adattate a una cultura diversa da quella in cui siamo cresciuti. Quello che mi spaventa, davvero, è quanto l’esternazione della rabbia, in particolar modo quella verbale, sia diventata la farina con cui impastiamo quello che ci capita sotto mano.
Intendiamoci, c’è anche chi se ne guarda bene, c’è chi usa una farina a rabbia zero, ma c’è anche tanta gente che, forse senza nemmeno accorgersene, prende la rabbia come esempio di forza, come ingrediente di indiscusso rispetto e successo.
La cosa che trovo ancor più interessante, di tutta la faccenda dell’aggressività verbale, è che da un lato la usiamo, ne facciamo lo stesso uso che se ne fa dei tovaglioli per il gelato: esageratamente troppi per una sola persona, e dall’altra, comunque, penso che ognuno di noi si renda conto di vivere un tempo difficile (no, non parlo solo del Covid, perché di problemi ne avevamo già prima).
E questa piccola, sottile consapevolezza a cosa porta? All’esatto opposto, perché l’uomo non solo è essere sociale, è anche essere molto tonto, quasi schizofrenico. Una volta raggiunta l’ombra, pensiamo sia sufficiente quella per non patire più il sole che a lungo abbiamo avuto sulle spalle. Cosa facciamo quindi? Inondiamo la rete di messaggi sull’ormai famosa body positivity (concetto molto bello, ma forse utopico e inapplicabile in una società virtuale invasa da filtri, da fotografie che sembrano voler ritrarre un panorama di montagna ancora più bello di quello che già è, come se quello che vediamo non fosse abbastanza tirato a lucido).
Parliamo di inclusione, di volerci tutti più bene, di accettarci così come siamo, di vedere il bello nella diversità. E di nuovo, non sto dicendo che tutto questo sia solo utopico, ma forse, soltanto, che prima di fare un salto di qualità così importante, sarebbe meglio assicurarsi di avere ben salde le gambe nelle nostre piccole quotidiane azioni di non aggressività verbale verso l’altro.
Che tanto, e così mi riallaccio al proverbio africano, mica dobbiamo difenderci da un leone!
In caso vi trovaste invece a dovervi difendere da un leone….
Eh no, manco l’aggressività verbale sarebbe sufficiente a salvarvi la pellaccia. L’aggressività non paga, mai.