La vita davanti casa

Sono entrata stamattina alle 8 e 30, e dentro quel bar c’eri già tu.

Sono entrata per la seconda volta, oggi pomeriggio, intorno alle 6: eri ancora lì.

Mi siedo, istintivamente nello stesso posto di stamattina ma il barista, con l’ immediata prontezza di riflessi che caratterizza questo mestiere, mi fa segno di cambiare posto.

Ed i miei occhi, come già anticipando quella fugace alzata di sopracciglia, si posano su di lei.

Sei di nuovo lì, nella stessa sedia di stamattina, ma sei cambiata.

Mi guardi, e per un attimo sembri meravigliata di vedere questa presenza che, forse, vagamente, credi aver già visto; o forse ti sorprende percepire qualcosa muoversi: rumore di sedie, le luci troppo forti e quel liquore che gratta le pareti dell’esofago.

Mi sposto, ti passo accanto: hai la gamba sinistra allungata verso il corridoio, il piede è storto, la mano pare voler fermare la testa, opporsi a quell’irrefrenabile richiamo: non ho più forza, alcuna.

Mi siedo dall’altra parte del bancone, il barista mi porta il caffè con sguardo rassegnato e compassionevole.

Una colonna di specchi ti nasconde, strappo la bustina dello zucchero: ti ho vista stamattina alle 8 e 30, ed è stato la prima volta che ho sentito dire “ Larios con Cola, por favor”.

Era mattina, doveva essere la tua seconda Coca Cola perché davanti a te ne avevi un’altra, vuota.

Hai chiesto Larios con Cola, hai pagato con una banconota da 50 euro.

L’hai ordinata con un tono di voce che non lasciava spazio a dubbi di nessun genere. Non ti conosco, ma hai una cadenza lenta, quell’eleganza di nomi scanditi in una tristezza placida, ponderata, condannata.

La stessa eleganza ritrovo nel portamento: richiudi il portafoglio con cura, le tue ciglia si abbassano per considerare meglio qualcosa che pare interessarti molto, eppure, in quel perfetto ritratto di delicatezza e dominio, dietro la tranquillità che apparentemente emani, allo stesso modo, velatamente, mi provochi dentro un’ incontenibile tristezza.

E credo sia proprio quello il punto, penso pochi minuti prima di sentire il tonfo: tu non vuoi essere consolata, tu vuoi soltanto bere in pace, bere fino a che, nel vortice delle mie impressioni, irrompe un unico distinto tuffo nel marmo.

Sei tu, palese osservazione di quanto appena sentito.

Sussulto, nemmeno io, come te, riesco a muovermi.

Sono spaventata, ho paura, gli occhi si dirigono verso le persone sedute ai tavolini, commentano.

Continuo a rimanere immobile, il cameriere ne chiama un altro, piango.

Le persone parlottano, alcuni scuotono la testa.

Detesto i bar, le vicende personali giacciono sul bancone insieme a giornali stropicciati e tazzine sporche, tutto diventa argomento degno solo di falsa e ipocrita compassione.

Loro non soffrono con lei, nemmeno per lei.

Come lo vedo?

Perché proprio nel guardare la scena, continuano ad assaporare l’aromatico caffè e osservano, come se stessero sfogliando una rivista, guarda un po’ cosa ha combinato, aspetta, gira pagina, vediamo cosa dicono di…..

Rimango seduta, sto ancora piangendo, perché nessuno chiama l’ambulanza?

Perché i baristi hanno lasciato che questo accadesse?

Quanto ha bevuto da stamattina?

Un anziano signore mi passa accanto, anche lui scuote la testa e prova a sorridermi, nel più intimo, perverso tentativo di dirmi: “ Hai visto, la gente come si riduce…”, con un accennato sorriso di sollievo, come a pensare: io sono in piedi, sono mica sdraiato come quella poveretta.

Come se fosse un immeritato diritto della donna caduta a terra, essere da quella parte, come una contagiosa maledizione che per fortuna, questa volta, ci ha risparmiato, vero?

Perché, santo dio, crediamo di essere a teatro, perché quando ci allontaniamo dal nostro caffè pensiamo che la rappresentazione sia finita? Si ritorna alla nostra, di messa in scena.

E intanto lei, dietro al sipario, continua a soffrire, traspone schegge di vita vissuta in brandelli di ricordi bagnati, fradici d’alcool.

E puzza la vita, e tutti, nel loro piccolo, si rallegrano di poter richiudere le porte di quel bar.

Merda, mi verrebbe da urlare, perché la state spostando su un’altra sedia, perché la raccolgono, la sistemano ma non le parlano?

Perché non potete chiamare l’ambulanza?

Forse dovrei chiamare un taxi, dice il barista rivolto alla proprietaria del locale.

Spero che lei sia più ragionevole: dovete chiamare un’ ambulanza, non può stare da sola, continuerà a farsi male.

Mi guarda, mi ascolta, mi dà retta e compone il numero.

Ti guardo, e in quel gesto provo una grande vergogna di me stessa: potevo semplicemente parlarti, avrei dovuto rimanere seduta dov’ero, forse avrei evitato che ti facessi male.

E invece non l’ho fatto, non ce l’ho fatta a correre verso di te appena ho sentito il tonfo.

Sono rimasta ferma mentre apparentemente, senza ovvi motivi, piangevo.

Piangevo perché eri sola e perché io, come te, mi sentivo miserabile in quel bar abitato da sguardi di misera disapprovazione.

Nessuno è venuto a parlarti, e io nemmeno.

Nel soffrire, come nella morte, si è sempre nel proprio solitario cantuccio di vita, dove ognuno può passare ma dove nessuno davvero può soffermarsi e rimanere.

Sei seduta, posi le dita della mano destra, a rallentatore, incerta, sul tavolo. La mano sinistra a penzoloni.

Le tue pupille, inesistenti, con un fondo di incredulità, si muovono per te, e quella maschera di espressioni indotte traduce : “ Cosa sta succedendo?”.

E’ quello che stai pensando, sbuffi, come sottilmente infastidita da quell’ingiustificato vociare.

Ti hanno portato la borsa che avevi lasciato sul bancone, davvero così, così è tutto a posto? Il quadro è di nuovo sistemato nella sua mancanza di cura?

Esco, continuo a piangere e a pensare perché stamattina, proprio alle otto di domenica mattina, eri già in un bar?

Eri già lì prima che entrassi o eri ancora lì?

Penso, e non riesco a fermarmi, e spero forse, così, di poterti aiutare con più fermezza, con più decisione di quanto ne abbia avuto oggi.

Quanto riportato oggi è un estratto di vita vissuta a Vigo, nella Galizia spagnola. Per qualche mese Vigo è stata la mia ventosa casa di mare, fatta di salite e gabbiani meditabondi.

Vigo è una città molto bella, marina, a tratti malandata. Quella mattina lì ero andata al bar, presto, per gustarmi un buon caffè, per iniziare bene un’intensa giornata di studio e preparazione agli esami.

Quella domenica non c’è stato nessun tipo di studio, se non quello sull’animo umano: l’uomo e il fascino malato, malcelato e a tratti esposto in bella vista; la curiosità puerile e l’interesse morboso per gli affari altrui, il volersi affacciare di casa a guardare la vita solo per poi tornare dentro, disinteressati e già presto annoiati.

Quella domenica non mi sono solo sentita profondamente inutile e incapace di salvare una persona dagli sguardi circostanti; quella vista mi scorò perché fu per me la realizzazione di quanto gli uomini possano vivere come bambini incapaci di gestire le più complesse vicende umane, di quanto ci sia bisogno di essere salvati e protetti anche da chi, in realtà, potrebbe e dovrebbe essere fonte di protezione secondaria.

Da un articolo di Marco Follini, la lezione americana sul potere e il dolore

Quando un’oretta fa ho aperto WordPress, volevo solo controllare un paio di cose.

Il mio intento era quello di leggere qualche articolo e poi proseguire nella mia giornata. Eppure, c’è una cosa che mi sta molto a cuore e su cui rifletto da un paio di giorni; un argomento su cui ci sarebbe molto da dire, una questione così vasta, complessa e intricata da poter dar vita ad un altro blog.

Mi interesso di politica, più o meno come tutti, ma di politica non mi occupo, più o meno come tanti. Ed è proprio qualche giorno fa, durante un breve scambio di mail con un vecchio compagno di scuola, che ho fatto riferimento al concetto platonico di politica.

La politica con la P maiuscola che oggi, adesso più che mai, sembra essere diventato un concetto quasi utopistico, in realtà riflette ciò che l’uomo dovrebbe essere per la società: responsabile, padre e figlio di essa. La politica come mezzo di comunicazione per il bene comune, e non come silenzioso mezzo per arrivare a soddisfare i propri, personalissimi scopi.

Bene, dopo questa breve premessa credo sia intuibile quanto scarsamente soddisfacente sia per me, e temo non solo per me, leggere di vicende dove il politico di turno con il suo ostentato credo cerca di attrarre quanto più consenso e appoggio al suo mulino. Frasi, slogan e interviste che assumono forse i toni di una boutade fatta per ingrassare la pancia, anziché rimpolpare il senso civico e il rispetto di chi crede in lui.

Della destra capisco certe cose, così come della sinistra ne comprendo altre, ma a prescindere dal credo politico di ognuno di noi e dal diverso grado di interesse che attribuiamo alla politica, quanti di noi, davvero, possono ritenersi privi di curiosità verso l’universo politica americana?

Noi italiani che guardiamo agli Stati Uniti come la sorellina minore guarda a quella sorella maggiore piena di successo, approvazione e splendore, noi signori mediterranei gettiamo sempre una certa occhiata di fervente attenzione a tutto ciò che fa la grande cugina d’oltremare.

In questo caso, forse più che in anni passati, i riflettori si sono accesi con frequenza sempre più ravvicinata, e nella maggior parte dei casi, non proprio per motivi gloriosamente favorevoli e degni di nota.

Con Joe Biden, finalmente, l’America sembra tirare un primo, timido ma esausto sospiro di sollievo. Perché se da una parte è sempre possibile tracciare dei paralleli italo-americani tra il nostro passato e il loro presente quasi passato, è indiscutibile e palese quanto Joe Biden sia il deus ex machina che tutti aspettavamo, arrivato nel momento di massima tensione, giunto dopo mesi di raffazzonata politica americana portata allo stremo, nelle maglie complesse e sole di un Paese che fa luce pur non avendone molta.

Citando un brillante articolo di Marco Follini, può essere il tramonto di leadership muscolari e velleitarie, e magari l’inizio di un ciclo diverso in cui la grandezza dei condottieri non viene più affidata ai loro proclami più stentorei, ma viene piuttosto appoggiata sulle spalle di chi ha pianto e si è disperato e ha dovuto fare i conti con le avversità più onerose della vita.

Guardando alcune interviste di Joe Biden, pensando alle sue scelte, non per ultima quella di istituire una task force sanitaria fatta di massimi esperti e ricercatori in materia, e ancora osservando il suo modo misurato di parlare, la sua postura equilibrata e mai esagerata, mi viene da pensare solo questo: è l’uomo di cui l’America ha bisogno.

Dopo anni di scempiaggini travestite da senso di grandeur e magnificenze degne di un uomo pronto a fare l’impossibile per nascondere la sua essenziale inadeguatezza, si fa strada tra le radio e le televisioni riverberanti nei backyard americani, un presidente compassato e deciso, un uomo.

Chissà come le cose si svilupperanno in futuro, dunque. Chissà che non sorga il dubbio, anche ai più fervidi sostenitori di Trump che forse meno è meglio e cauto è più coraggioso. Chissà che l’America non riesca infine a vedere la grandezza di spirito, l’equilibrio emotivo e la sobrietà che ne derivano da grandi dolori e ingiuste perdite. Chissà che da un senso di ingiustizia non ne nasca un forte senso di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, un senso di ciò che siamo e non vogliamo più essere, una postura morale.

Perché come diceva Oriana Fallaci, c’è molta dignità nella riservatezza.

Da cosa nasce cosa (leggasi l’immortalità dei nomi)

Si narra che Archimede morì brutalmente assassinato da un gladio, una spada dalla lama corta ma molto appuntita.

L’inventore di Siracusa, assorto nelle sue teorie e dimostrazioni geometriche, non volle prestare ascolto al soldato romano che, dinanzi al rifiuto del matematico, decise dunque di porre fine alle sue elucubrazioni logico-razionali.

Si narra anche di una piccola Sophie Germain, all’anagrafe Marie-Sophie, intenta a leggere dell’uccisione di Archimede per “colpa” della matematica, storia di un nome che per lei sarà l’inizio del suo stesso nome, e storia.

Vedete, talvolta il percorso o il passato di una persona va a toccare con estrema gentilezza e casualità la vita di un’altra persona, come molecole che si infrangono fra di loro senza sapere quando, così è questa Terra e i suoi abitanti, ricchi di caso, influenza e fascino.

Si narra ancora dell’amore di Sophie Germain per i suoi numeri, quelli che oggi conosciamo come i numeri primi di Germain. Non pensiate però che io vi stia parlando di matematica in quanto esperta conoscitrice perché, sapete, io uso ancora le dita per contare (e se sto guidando e devo contare, allora mi disegno dei teneri scarabocchi aerei per facilitare l’annosa questione di fare semplici operazioni matematiche). L’unico motivo per cui io so chi sia stata Sophie Germain è grazie al film Proof con Gwyneth Paltrow e Anthony Hopkins, film che merita qualche breve accenno e dovuto complimento a riguardo. Anzitutto, ecco il link al trailer in inglese: https://www.youtube.com/watch?v=rT0clobsIGg, ed eccovelo in italiano per chi preferisse ascoltare accenti più familiari: https://www.youtube.com/watch?v=LkK8MdK3UZU

Non volendo snocciolarvi la trama, come sarebbe solito mio fare, vi regalo dunque solo alcuni tratti descrittivi di questo cast perfettamente coordinato da un regista come John Madden, che di follia non solo ha parlato nel suo film, ma che secondo me, oltre ad essere parte del suo cognome, qualche tratto somatico da pazzo se lo ritrova anche in quelle sopracciglia sregolate e irriverenti.

Assoluti padroni di casa sono senza dubbio Anthony Hopkins e Gwyneth Paltrow, padre e figlia legati da un filo di genio e follia, trasmesso senza alterazioni di alcun tipo dai cromosomi del padre a quelli della figlia. Una grande presenza scenica di lui bilanciata dall’esile presenza di lei, una Paltrow accompagnata da uno sguardo perso nel vuoto che la rende ancora più credibile e fedele al suo ruolo. La sorella di lei, piccola formichina di successo che ha conquistato Chicago senza però esser riuscita ad impadronirsi di un quarto dei cromosomi matematici dal padre è Hope Davis. Ruolo di una sorella che ci pare fastidiosa fin da subito, come una piccola mosca che ronza attorno a ciò che più le interessa, o crede di interessarla. Riusciremo a tollerarla per tutta la durata del film? Infine, Jake Gyllenhaal, perfetto nella sua americanità di ragazzotto responsabile e ambizioso, nato per essere in opposizione al carattere apparentemente debole e fragile della Paltrow.

Ma torniamo alla nostra Sophie Germain: incuriosita dalla storia dell’uccisione di Archimede, la piccola bambina parigina fu portata a pensare che la matematica dovesse essere una figata pazzesca, come direbbe oggi la nostra schermitrice italiana, Bebe Vio. E così, piantato il seme dell’interesse, ne esplose in superficie il potente albero che è l’amore per la conoscenza. Libro dopo libro, Sophie Germain insegnò a se stessa l’antica arte dei numeri, per anni studiò da sola su dispense che ottenne falsificando la sua identità, facendosi passare per maschio, dato che la scuola dell’epoca era pensata per soli maschi. Antoine-August Le Blanc fu lo pseudonimo che Sophie utilizzò spesso e che spesso le venne utile per rendersi più credibile agli occhi esterni, come se il matrimonio tra il cervello femminile e la matematica fosse un qualcosa di impensabile e scellerato…

Seppur osteggiata, prima dai genitori e in seguito dalla comunità scientifica dell’epoca, Sophie Germain si impegnò in diversi filoni di ricerca matematica, arrivando infine ad essere la prima donna ammessa all’Accademia delle Scienze di Parigi, ambiente all’epoca (1880) riservato esclusivamente a individui con alti livelli testosteronici.

Piccola curiosità non del tutto provata: sembra che i numeri primi di Germain possano essere infiniti. A tal riguardo, per chi se ne intende sicuramente più della sottoscritta, vi lascio due link ad articoli che parlano dei numeri primi di Germain: http://www.bitman.name/math/article/127 ; https://it.qaz.wiki/wiki/Sophie_Germain_prime.

Oggi, Sophie Germain, oltre ad essere inevitabilmente legata ai suoi adorati numeri, è anche una strada di Parigi:

https://www.google.it/maps/place/Rue+Sophie+Germain,+75014+Paris,+Francia/@48.8306597,2.3315528,3a,75y,110.4h,83.77t/data=!3m6!1e1!3m4!1s9u3-4kTNk0-t4DWt2aTfdQ!2e0!7i16384!8i8192!4m5!3m4!1s0x47e671b0ae4345ab:0xa4d0596fe7ee9044!8m2!3d48.8308082!4d2.3309568

Sempre oggi, Sophie Germain è un cratere di Venere e una scuola: le lycée Sophie Germain.

Da cosa nasce cosa.

Senza parole

Come vi avevo anticipato nel post precedente, oggi si ritorna ad accendere i riflettori su una questione di cui vi avevo brevemente parlato qualche giorno fa. Consideriamo per un attimo (o forse anche più di un attimo) le spigolosità e i possibili, futuri risvolti di un argomento che mi sta molto a cuore: la cattiveria della cattività.

Non me ne vogliate per questa spiacevole ripetizione di suoni chiusi e rigidi ma, anzi, sappiate che l’effetto è voluto. Provate a dischiudere le labbra e ripetete il suono “ch” nel silenzio della vostra mente. Ch di chiave, di chiuso, di chiostro. Ch. Ch. Ch.

Cosa vi viene in mente? Immaginate un animale che vaga in un perimetro estremamente limitato, in un habitat finto e privo di stimoli sensoriali. Ch. Ch. Ch.

Pensate ad un animale che si trova ai vertici della catena alimentare, intelligente, estremamente sociale e dotato di una parte di cervello che a noi manca, un animale simbolo di grande libertà. L’animale fatto di due sole parole: orcinus orca.

Il nome scientifico dell’orca rimanda al dio romano dell’oltretomba, Orco. In diverse culture, quella dei nativi americani ad esempio, l’orca è portatore di messaggi legati alla spiritualità, al senso di indipendenza e protezione del branco. La loro vita in natura è interamente basata sul senso di appartenenza al proprio pod, famiglie di venti, trenta individui legati da una gerarchia di tipo matriarcale. Interessante notare come i figli maschi non si separino mai dalla madre e dalla nonna, il cui compito è quello di insegnare alla prole le più astute e scaltre tecniche di caccia. Inoltre è stato dimostrato che ogni pod comunica usando un linguaggio proprio, un dialetto che contraddistingue le diverse famiglie.

Rimanendo sempre su frangenti scientifico-divulgativi, il documentario Blackfish ci insegna come l’orca abbia sviluppato una porzione in più del sistema limbico, l’importante rete di strutture cerebrali deputate all’elaborazione delle emozioni. La scoperta di questa estensione cerebrale non può far altro che portare gli scienziati a credere che l’orca abbia uno spiccato, forte senso di sè, distribuito e condiviso tra le maglie del proprio pod. A questo proposito, vi lascio un link per riflettere sul gesto dell’orca che per giorni e giorni e giorni ha portato sul suo muso il cucciolo senza vita (https://www.lifegate.it/orca-tahlequah-gravidanza).

Senza sconfinare nelle lande desolate di chi critica l’antropomorfismo della natura, ovvero l’attribuire aspetti emozionali e comportamentali tipici dell’essere umano ad esseri appartenenti al mondo animale, vi porto con piacere alla memoria un fatto molto importante e semplice.

Amigdala in greco significa mandorla. Quello di cui sto parlando ora è una piccolissima struttura cerebrale, cuccia delle emozioni. Da un punto di vista evolutivo, è una parte molto antica del nostro corpo, fondamentale oltre ogni ragionevole dubbio, in quanto ci ha salvato la pellaccia in più situazioni. Tutte quelle volte che percepiamo un pericolo, lo percepiamo grazie a lei.

Studi iniziali guardavano infatti all’amigdala come all’organo della paura, come un paio d’occhiali che ci salvano da situazioni di pericolo o potenziale danno. Attualmente, la ricerca ha esteso il ruolo dell’amigdala a pasticciera delle emozioni. Lei è quella che mette le mani in tutti i processi emozionali, lasciando poca voce in capitolo a ciò che dice la sfera razionale del nostro essere.

Così come l’uomo, anche l’orca possiede la sua bella amigdala, peraltro molto sviluppata.

Dunque la domanda che tanto volevo farvi: che cosa manca all’orca?

La parola.

Con le parole si comunica tutto, anche il disagio e la sofferenza. Perché se un gesto vale mille parole, a volte i gesti non sono abbastanza per consentire agli animali di esprimersi e farsi capire.

Tutti gli animali in cattività soffrono, non illudetevi, non illudiamoci. Non crediamo di intravedere un’aria di allegria nella bocca di un delfino che afferra al volo una palla dai colori sgargianti.

Chi vive nei penitenziari acquatici, negli zoo e in qualsiasi altra forma di reclusione forzata vive in uno stato che altro non possiamo chiamare se non innaturale.

Da qui, la domanda che pongo e ripongo a voi. E anche a me stessa: perché continuiamo ad alimentare gli affari di marchi, nazionali e internazionali, che mascherano i loro scopi personali con obiettivi discutibili come quelli di educare il pubblico e divertire i più piccini?

Dipendenza da parco

L’essere umano è fantastico: siamo capaci di provare l’intero pantone di sentimenti dalla A alla Z.

C’è chi si orienta su tinte giallo buaggine forte, e chi, invece, preferisce restare in un bordeaux apatia profonda. Chi si trucca spesso di rosso color rabbia, chi lascia i propri zigomi albeggiare sotto tinte cerulee. Diciamo pure che un numero quasi illimitato di motivi, dalla visione di un piccolo oggetto insignificante a una parola detta in un certo contesto, è in grado di portare i nostri occhi e la nostra bocca all’arancione di pazza gioia. E mentre il nostro cuore è alla sagra delle emozioni, c’è una scelta, remota e talvolta introvabile, che ci porta a sorridere davanti a un bambino, con la stessa velocità con cui ci incupiamo davanti a un cielo oscuro. Allo stesso modo, c’è anche chi si rallegra davanti a un nubi minacciose, guardando invece con mitigata indifferenza le guanciotte di un neonato. Siamo ciò che la nostra specie ci ha portato ad essere, e ciò che la società ci suggerisce di essere, ma siamo anche ciò che sentiamo di sentire.

E nonostante questo, nonostante le nostre indubbie capacità cognitive, pronte a farcire un curriculum fatto di evidenti competenze emotive, ci ritroviamo spesso a testa in giù, vittime di un errore molto comune, e quindi molto umano: l’incapacità di essere costanti nelle nostre scelte.

Ditemi, quante volte vi è capitato di passare trionfanti davanti al vasetto di crema alle nocciole più famosa del mondo? A me, zero. Ma, lo ammetto, ci sono volte in cui penso a tutte le poco piacevoli conseguenze del diabete e di un pancreas con l’esaurimento nervoso che, lo ammetto, un po’ la voglia di mangiare zucchero me la fa passare. Ma poi, puntualmente, domani è un altro giorno.

Quante volte passate davanti al vostro armadio, ricolmo di vestiti che non sanno nemmeno di essere stati acquistati due inverni fa, sbuffando e immergendovi in un processo di auto-compassione, altresì noto come sindrome del “non ho niente da mettermi”? Personalmente, spesso, ma poi penso ai miei 40 astucci. E penso di non averne abbastanza, sicché la smetto di lamentarmi del mio armadio. E compro il quarantunesimo astuccio.

Ovunque voi vi giriate, troverete sempre i paradossi dell’animo umano. Nello specifico, vi accorgerete di quanto possa essere semplice, in linea teorica, scegliere e mantenere quella scelta. Nella pratica, tuttavia, nella pratica le cose si complicano sempre.

Inizio e finisco questo breve post facendovi un paio di domande: avete presente i penitenziari per animali? Pensate ai grandi parchi acquatici come Marineland, Seaworld. Se avete poche palanche, come diciamo noi di Genova, prendete come riferimento l’Acquario di Genova. Pensate anche agli zoo, come meglio vi aggrada. In qualunque valuta voi abbiate appena pagato, voi, quadrupedi dal portafoglio più o meno veloce, siete consapevoli di aver pagato per un qualcosa che a voi piace. Pagate per vedere lo sguardo incantato di vostro figlio davanti a un delfino con la palla, per una foca in volo subacqueo. Entrate in questi parchi perché volete concedere, concedervi, la possibilità di vedere l’altra faccia di voi, quella intelligente e libera. E con lo stesso grado di consapevolezza, sapete anche di essere parte di un sistema che fa soldi sulle spalle di animali che nulla possono, se non esibirsi.

Tutto questo come vi fa sentire? C’è chi di voi ha rinunciato ad andare all’acquario? O siete invece sempre altalenanti tra un lento rifiuto e una netta gioia di vedere spettacoli, che però appartengono solo alla natura?

Al prossimo post, la continuazione di questo.

Tu lo conosci Louis Zamperini?

Conobbi Louis Zamperini un paio d’anni fa, per caso.

Non fraintendetemi, il ragazzo in questione è mancato da un pezzo. Aveva la bellezza di 97 anni, Louis, quando corse verso lidi certamente diversi, forse migliori di questa nostra terra scapigliata e sporca.

Prossima alla partenza per terre lontane, un pomeriggio d’inizio estate, ricordo di essermi imbattuta per puro caso in una canzone dei Coldplay chiamata Miracles: https://www.youtube.com/watch?v=8rzgeP_zKJk

Ad aprire il video, una frase in inglese di questo Louis Zamperini. E chi mai è questo, mi chiesi incuriosita. La combinazione di quel nome coniugato a quel cognome di eco italiano me lo fece subito piacere. Curioso vero, come certe persone vengano al mondo con un nome e un cognome cosi magistralmente ben assortito, quasi a sembrare celebri protagonisti di un libro, forse compositori, magari attori? Sicuramente Qualcuno.

E così, spulciando sul nostro fidato amico google, venni a sapere della sua storia.

Storia di cui non voglio parlarvi qui e ora. Vi lascio con la curiosità di scoprire chi fosse questo Louis. Che poi magari, già lo sapete 🙂

Vi dico solo che a lui sono dedicati un libro e un film.

Per la sua storia di resilienza, parola che sembra andare per la maggiore di questi tempi, parola che piace così tanto a noi che andiamo in pappa senza wifi per due minuti.

La storia di Louis, letta con in sottofondo Miracles dei Coldplay, mi ha rafforzata da dentro. La sua miscela vincente di forzata noncuranza verso le avversità della vita, qualità di cui il suo corpo si è sempre fatto interprete, continuando la sua corsa e la sua crescente fede mi ha fatto riflettere sul nostro bisogno di proiettare fuori di noi ciò che noi siamo.

Se siamo fedeli a noi stessi, se continuiamo la nostra corsa personale, allora forse, davvero, potremo diventare qualcuno.

Così come Louis Zamperini diventò Louis Zamperini.

…Il corpo faccia quello che vuole.

Lo straordinario misto di genio e talento vissuto in Rita Levi Montalcini una volta disse: “il corpo faccia quello che vuole, io sono la mente!”. Ricordate?

Come darle torto, soprattutto se al posto di un club di neuroni fluttuanti e sonnacchiosi, ci si ritrova un’artiglieria pesante di assoni a invadere il cervello in pieno stile Alleati in Normandia. Lei, donnino sempre attivo e all’opera, proprio come Margherita Hack, si svegliava la mattina presto per concentrarsi sulle sue ricerche -la mia esile predisposizione ad alzarmi con il canto del gallo è ciò che mi fa presagire di essere ancora lontana dal Nobel! 🙂

Tuttavia, se la nostra neurologa esortava il corpo a fare ciò che più gli aggrada, in quanto poco le pesava identificarsi e fondersi con la sua sola mente, è altrettanto vero che sì, il corpo fa ciò che vuole. E meno male che lo fa. Evviva la caparbia ostinazione e sordità del corpo che tutto sopporta, ma che tutto riporta.

Per condurvi nella mia riflessione, vi parlerò di due esempi, lontani fra loro ma utili per riassumere il punto su cui voglio fare luce.

Dermatite atopica, gastrite, enuresi, attacchi di panico, cistite, acne, sudorazione profusa sono solo alcuni dei sintomi e delle condizioni che rivelano un disagio molto più profondo di una ghiandola o della pelle. Le malattie psicosomatiche, diventate oggi il punto focale della medicina alternativa, in virtù di un progressivo avvicinarsi delle scienze mediche a quelle sociali (la famosa medicina olistica, di solito guardata con occhi di strabico, scettico interesse), sono rappresentazioni violente di un malessere interno che la mente sfoga con tutti i colori a disposizione del corpo.

C’è chi ha la cistite dopo un colloquio, chi viene preso da attacchi di panico in momenti di inspiegabile, apparente tranquillità, così come chi lamenta una tendenza ad avere la pressione alta, un forte bruciore allo stomaco dopo una riunione con il capo. Tutte queste piccole spie, spesso prese come insignificanti disturbi da trattare come un Momendol della situazione, sono invece da considerare importanti prese di posizione del corpo che, nel suo massimo momento di espressione prevale su ciò che la mente, bontà sua, vuole farci credere.

Stai andando alla grande, disse la mente, non cedere di un millimetro!

Cedo eccome, disse il corpo. Ti farò scappare la pipì così spesso da costringerti a fermarti una volta buona, tu e le tue smanie da perfezionista incallita!

Questo fa il corpo, fa ciò che vuole.

Allontaniamoci un secondo dalla medicina per avvicinarci brevemente a un triste episodio di cronaca americana di fine anni Novanta. Siamo a Boulder, cittadina del Colorado ai piedi delle cosiddette Flatirons, formazioni rocciose che sembrano voler ricalcare la forma di un ferro da stiro -flatiron, appunto.

La famiglia Ramsey, una madre ex reginetta di bellezza, un padre con un spiccato senso d’affari e due bimbi bellissimi, Burke e Jonbenét, di nove e sei anni. La mattina di Santo Stefano del 1996, i genitori trovano una richiesta di riscatto sulle scale, tre pagine di minuziosi dettagli e messaggi incomprensibili (vi invito a pensare ad altri casi in cui si siano ritrovate lettere di riscatto altrettanto lunghe) che lasciano intuire una sola ed unica certezza: la bambina, Jonbenét è stata “rapita”.

Senza volervi raccontare troppo sulla faccenda, e in particolar modo senza voler necessariamente accusare nessuno, includo qui il link di un documentario su questa oscura tragedia che sembra non essersi mai risolta: https://www.youtube.com/watch?v=lpIB49V2izU

Al minuto 1:01:36 trovate un estratto della seduta tra lo psichiatra infantile e Burke, fratello della piccola Jonbenet. Il medico fa uso di giochi come Indovina Chi per facilitare il dialogo tra lui e il bambino. All’inizio della conversazione, Burke appare rilassato, le sue gambe sono allungate e sul suo viso aleggia un timido senso di superiorità. Man mano che il dialogo procede, però, l’atteggiamento del bambino si modifica fino ad arrivare al momento cruciale della foto del pineapple and milk, un piccolo dessert fatto di ananas e latte, lo snack per eccellenza dei pargoli della famiglia Ramsey.

Tracce di ananas verranno in seguito ritrovate nell’intestino della bambina, a riprova del fatto che il frutto era stato ormai digerito. Sulla tazza trovata nel salotto di casa Ramsey, le uniche impronte sono quelle della madre e del figlio, ma non della figlia. Le indagini sembrano puntare il dito verso tutti i componenti della famiglia, anche verso il fratello. Possibile che Burke abbia avuto uno scatto d’ira verso una sorella che per dispetto ha appena rubato un pezzettino di frutta dalla tazza cui stava servendosi il fratello? Vero è che esplosioni di rabbia e gelosia nei confronti della sorella non erano affatto rari da parte del fratello maggiore, riportano persone vicine alla famiglia.

Per cercare di fare chiarezza, lo psichiatra mostra una foto della tazza contenente pezzettini di ananas e latte. Una semplice rappresentazione di un dettaglio casalingo. Lo psichiatra chiede con molta disinvoltura e tranquillità che cosa sia rappresentato in foto. Il bambino, come se avesse appena percepito il vuoto di una trappola che sta per aprirsi sotto di lui, indugia, bofonchia di non sapere cosa sia, forse sì, sono pezzettini di frutta e cereali? Per gli esperti di analisi del comportamento, l’atteggiamento del corpo di Burke è l’emblema non solo di chi si trova in difficoltà, ma di chi vuole scappare, di chi vuole farsi piccolo piccolo. Il bambino è passato dall’essere letteralmente allungato sulla sedia, a trovarsi rannicchiato sulle ginocchia, seppellendo a turno le mani sotto di esse; da uno sguardo con il mento in alto ad uno con il mento abbassato, la mano sinistra che si stropiccia fino ad accartocciare nervosamente la manica destra della maglietta. Ogni parte del corpo di quel bambino sembra volersi ripiegare su se stessa.

Il dottor Paul Ekman, che ha fatto dei suoi studi la sua fortuna e la sua vita, lo spiega bene: il corpo elude la mente mostrando ciò che noi, con tutti i nostri sforzi consci e inconsci, cerchiamo di nascondere. E non necessariamente agli altri, ma anche a noi stessi (ricordate le malattie psicosomatiche di prima?).

Bene, questo fa il corpo: fa ciò che vuole.

E nel far ciò che vuole, ci suggerisce in realtà la via più semplice, quella dell’ascolto.

La morbidezza dell’anguria

Vi è mai capitato di essere sorpresi dall’imprevedibile, ma costante, presenza degli opposti in natura?

Giusto ieri, guardando i funerali di Gigi Proietti non ho potuto fare a meno di notare e riflettere sulla diversità dei volti e sulla divergenza di comportamento delle due figlie, Carlotta e Susanna.

Figlie di un dolcissimo romanaccio e di una altrettanto gentile e affabile signora di origini svedesi, le due donne, sedute ai lati della madre, mi sono apparse da subito come la luna e il sole.

Una, Susanna, congelata nel suo dolore, quasi paralizzata nel suo lutto. Per somiglianza fisica e di atteggiamento, verrebbe da dire che abbia preso tutto dalla madre.

L’altra invece, Carlotta, con sguardo dolce e pacato, quasi serena nell’animo, si guardava attorno, elargendo sovente miti sorrisi, non di circostanza, ma di sincero apprezzamento per tutto quel bene che il padre ha fatto rimbombare in quel teatro gremito di persone quel giorno.

Ieri sera, infine, dopo aver letto qualche articolo su questa famiglia italiana, ho intuito come la figlia più schiva abbia sempre tollerato poco la popolarità del padre, come quasi infastidita dal dover condividere una figura così personale ed esclusiva, come quella di un papà, con un pubblico che per strada ne riconosce solo i contorni pubblici e quindi, di conseguenza, non più esclusivi e personali.

Mi sono chiesta se l’altra figlia, quella romanaccia, risultasse più serena in volto forse proprio perché contenta e appagata da tutto quell’amore che per giorni è sgorgato nelle piazze e tra le vie di Roma.

Insomma, mi ha sorpresa e non poco vedere questa armonia di opposti, come direbbe quell’adorabile toscanaccio di Terzani. Questo non per intendere che la differenza di comportamento implichi un minore sentire, o un dolore meno forte, ma per sottolineare due cose: quanto anche dinanzi al dolore, ognuno rimanga fedele al suo stampo primitivo, e quindi quanto il bianco continui a essere bianco e il nero continui a palesarsi nero. Ma anche quanto bello sia, nella vita, poter coniugare due anime mai credute compatibili, due caratteri che divergono nel tempo e nello spazio emotivo, nello stesso nucleo di apparenti sconosciuti che è la famiglia. In un quel calderone di bellezze forti e diverse.

L’elefante nella stanza

E come si dice dalle mie parti…..buongiorno figgetti, rieccomi qui con voi!

Sono giorni difficili per tutti, questi. C’è poco da fare.

Tra le elezioni americane, Dpcm freschi di giornata, attentati terroristici e l’imprevedibile sobbalzare della crosta terrestre, senza potersi dimenticare della contagiosa allegria di questa pioggia che picchietta capricciosa sul vetro, che altro dire, verrebbe voglia di andarsene in letargo.

Ciao-ciao 2020, siamo partiti col piede sbagliato. Ci sentiamo quando metti un po’ di giudizio!

E così, tra un cane che non capisce perché continui a piovere e numeri in aumento che neanche Paperon de’ Paperoni, mi chiedo se il nostro modo di reagire a quest’ anno da canizie precoci non sia anche frutto di un essere sempre più abituati al tutto, subito. Ora.

Volevamo il cellulare che ci facesse navigare su Internet, e l’abbiamo avuto. Volevamo la certezza di sapere che lui avesse effettivamente visto il nostro messaggio con quel “risp” dalle note misto-mafiose, e l’abbiamo avuta. Volevamo la certezza di controllare se stesse effettivamente rispondendo, e l’abbiamo letto. Volevamo la vecchia collezione di Pog che cercavamo da quando eravamo piccoli, e Babbo Ebay ce l’ha data. Speravamo di non perderci per andare in quel paesino sperduto, e ora non ci perdiamo più. Ci aggrappavamo con tutte le nostre forze a quell’ultimo rullino, sperando di essere venuti bene in almeno una delle 24 possibilità lanciate al caso, ora ci aggrappiamo solo ai filtri, che però non sempre funzionano come il genio della lampada.

Volevamo talmente tante cose, e queste cose che abbiamo avuto nel corso di questi ultimi 50 anni le abbiamo avute sempre più velocemente e così gratuitamente, che ora ci sembra impossibile non potersi sbarazzare di un’epidemia con, non so, un abbonamento Prime un pochettino più costoso, o inviando un PayPal a qualcuno che se ne intende.

La gente è stufa, ogni volta che si parla di Covid si alzano gli occhi al cielo, o si abbassano. Si tenta il rilancio con i negazionisti (abbiate la rara premura di non svelargli il triste fatto che Babbo Natale non esiste, che quelli son dolori!), si tenta il tutto per tutto, anche il non volerne parlare più, come si fa con una spina che sentiamo dentro, ma preferiamo non guardare più.

E allora che dire, che fare? Puntiamo tutti i piedi, con la rabbia che bolle in pentola e la nevrosi che cresce rigogliosa tra i nostri muscoli intorpiditi dall’agitazione?

Questo, infine, il mio invito: guardiamoci indietro e impariamo da chi è stato prima di noi.

Aspettiamo di conoscere, aspettiamo di ricevere la posta, aspettiamo di sapere cosa ne sarà di noi, che tanto nessuna tempesta in natura si è mai acquietata con un tocco di app.

Va bene lo scoramento e lo scoraggiamento. La rabbia e l’impazienza anche; ma non è scuotendo la pentola che si ottiene un buon risotto.

Per certe cose, bisogna aspettare che il vento si calmi.

Perché l’orca viandante?

Non soltanto animali di una bellezza tale da incutere una sorta di stupore reverenziale, le orche sono soprattutto animali dotati di grande intelligenza e capacità sociali, simbolo di consapevolezza emotiva e spirito di protezione.

Durante il loro lungo arco temporale , gli esemplari adulti maschi non si separano mai dalla madre: rimangono tutti uniti in grandi gruppi che prendono il nome di pod, macinando chilometri e chilometri di oceano.

Questo moto perpetuo che è la loro vita in mare aperto mi porta alla mente la miriade di pensieri, appunti, voci e idee che spesso ho in testa e che, spesso, scompare per poi riapparire in vari momenti dell’anno.

Aprire un blog è una cosa seria, intendiamoci. Soprattutto al giorno d’oggi. Può funzionare come non funzionare, e credo proprio che il segreto sia essere sé stessi, riversando su pagine di carta aerea tutto ciò che più ci affascina e incuriosisce.

La fotografia, la criminologia, la poesia, la scrittura, il viaggio, le lingue, la psicologia, la cinofila; sarei bugiarda se dicessi di avere solo un interesse o due.

Ne ho molti, e forse averne troppi potrebbe anche non essere così vantaggioso.

Ma il punto è proprio questo: perché non riflettere e approfondire più cose, anziché specializzarsi e rimanere ferme su un solo argomento?

Questo voglio fare con voi, parlare di tante cose e, perché no, farvi conoscere qualcosa che magari prima ignoravate.

Buona lettura! 🙂