Come vi avevo anticipato nel post precedente, oggi si ritorna ad accendere i riflettori su una questione di cui vi avevo brevemente parlato qualche giorno fa. Consideriamo per un attimo (o forse anche più di un attimo) le spigolosità e i possibili, futuri risvolti di un argomento che mi sta molto a cuore: la cattiveria della cattività.
Non me ne vogliate per questa spiacevole ripetizione di suoni chiusi e rigidi ma, anzi, sappiate che l’effetto è voluto. Provate a dischiudere le labbra e ripetete il suono “ch” nel silenzio della vostra mente. Ch di chiave, di chiuso, di chiostro. Ch. Ch. Ch.
Cosa vi viene in mente? Immaginate un animale che vaga in un perimetro estremamente limitato, in un habitat finto e privo di stimoli sensoriali. Ch. Ch. Ch.
Pensate ad un animale che si trova ai vertici della catena alimentare, intelligente, estremamente sociale e dotato di una parte di cervello che a noi manca, un animale simbolo di grande libertà. L’animale fatto di due sole parole: orcinus orca.
Il nome scientifico dell’orca rimanda al dio romano dell’oltretomba, Orco. In diverse culture, quella dei nativi americani ad esempio, l’orca è portatore di messaggi legati alla spiritualità, al senso di indipendenza e protezione del branco. La loro vita in natura è interamente basata sul senso di appartenenza al proprio pod, famiglie di venti, trenta individui legati da una gerarchia di tipo matriarcale. Interessante notare come i figli maschi non si separino mai dalla madre e dalla nonna, il cui compito è quello di insegnare alla prole le più astute e scaltre tecniche di caccia. Inoltre è stato dimostrato che ogni pod comunica usando un linguaggio proprio, un dialetto che contraddistingue le diverse famiglie.
Rimanendo sempre su frangenti scientifico-divulgativi, il documentario Blackfish ci insegna come l’orca abbia sviluppato una porzione in più del sistema limbico, l’importante rete di strutture cerebrali deputate all’elaborazione delle emozioni. La scoperta di questa estensione cerebrale non può far altro che portare gli scienziati a credere che l’orca abbia uno spiccato, forte senso di sè, distribuito e condiviso tra le maglie del proprio pod. A questo proposito, vi lascio un link per riflettere sul gesto dell’orca che per giorni e giorni e giorni ha portato sul suo muso il cucciolo senza vita (https://www.lifegate.it/orca-tahlequah-gravidanza).
Senza sconfinare nelle lande desolate di chi critica l’antropomorfismo della natura, ovvero l’attribuire aspetti emozionali e comportamentali tipici dell’essere umano ad esseri appartenenti al mondo animale, vi porto con piacere alla memoria un fatto molto importante e semplice.
Amigdala in greco significa mandorla. Quello di cui sto parlando ora è una piccolissima struttura cerebrale, cuccia delle emozioni. Da un punto di vista evolutivo, è una parte molto antica del nostro corpo, fondamentale oltre ogni ragionevole dubbio, in quanto ci ha salvato la pellaccia in più situazioni. Tutte quelle volte che percepiamo un pericolo, lo percepiamo grazie a lei.
Studi iniziali guardavano infatti all’amigdala come all’organo della paura, come un paio d’occhiali che ci salvano da situazioni di pericolo o potenziale danno. Attualmente, la ricerca ha esteso il ruolo dell’amigdala a pasticciera delle emozioni. Lei è quella che mette le mani in tutti i processi emozionali, lasciando poca voce in capitolo a ciò che dice la sfera razionale del nostro essere.
Così come l’uomo, anche l’orca possiede la sua bella amigdala, peraltro molto sviluppata.
Dunque la domanda che tanto volevo farvi: che cosa manca all’orca?
La parola.
Con le parole si comunica tutto, anche il disagio e la sofferenza. Perché se un gesto vale mille parole, a volte i gesti non sono abbastanza per consentire agli animali di esprimersi e farsi capire.
Tutti gli animali in cattività soffrono, non illudetevi, non illudiamoci. Non crediamo di intravedere un’aria di allegria nella bocca di un delfino che afferra al volo una palla dai colori sgargianti.
Chi vive nei penitenziari acquatici, negli zoo e in qualsiasi altra forma di reclusione forzata vive in uno stato che altro non possiamo chiamare se non innaturale.
Da qui, la domanda che pongo e ripongo a voi. E anche a me stessa: perché continuiamo ad alimentare gli affari di marchi, nazionali e internazionali, che mascherano i loro scopi personali con obiettivi discutibili come quelli di educare il pubblico e divertire i più piccini?